[Elenco scritto a mano su un foglietto nascosto tra alcuni documenti nell'ufficio di Brendan]
Quali sono le piccole paure da nulla?
-Svegliarsi un giorno e non riconoscere di chi è la faccia che ti guarda dall'altra parte dello specchio.
-Non fare abbastanza. Non essere abbastanza. Mai abbastanza.
-Non poter far niente. Mani legate.
-Tutto che cambia all'improvviso.
-Niente cambia, tutto è identico.
-Un letto vuoto.
-Un telefono che squilla a vuoto.
-Una chiamata temuta.
-La stanza di un ospedale.
-Il sangue degli altri sulle mani, nella mente.
-La presa che scivola da mani amiche, mani amiche che si allontanano.
-Girarsi e incontrare lo sguardo deluso e furtivo di chi ami.
-Spalle amiche che si voltano.
-"Non mi importa."
-La tua barca che affonda.
-Idee che dividono fratelli e seminano violenza.
Chiamale da nulla.
Alla fine, tutti si appoggiano a tutti mentre cadiamo nel vuoto.
Alcuni, forse, cadono meglio di altri, e sono loro il centro delle cose.
Anche quando dentro la paura è uguale.
martedì 22 novembre 2016
sabato 15 ottobre 2016
Modus ponens
Scambio di messaggi salvato
nella memoria del telefono di Brendan, data 15 ottobre, primo
pomeriggio.
L'interlocutore è salvato
come “Mr. Hyde”
[Sei
ancora vivo, fratellino?]
Più o meno. Tu? Come va l'ospite
indesiderato?
[Io lavoro a quello che sai, lei ti saluta.
Dice che stai bene con i capelli corti.
In effetti sembri proprio una persona responsabile, tipo
un preside.]
Ha-ha. Siete simpatici come un dito in
un occhio.
…
Ce l'hai presente quel gioco idiota?
[Cosa?]
Ma sì! Quello in cui ciascuno fa una
parte di disegno, con solo l'ultimo tratto visibile da continuare? Ti
sembra di fare un gran bel lavoro, accidenti, un'opera d'arte, ma
alla fine poi esce fuori un mostro alato con la testa di culo.
Oppure il gioco del telefono. Questo è
un infinito, letale gioco del telefono in cui le due parti opposte
finiscono per volersi ammazzare a vicenda anche se fanno parte della
stessa catena.
Solo che non è un gioco, le persone
muoiono davvero, le persone non si capiscono e in generale non
capiscono un cazzo.
A volte sembra quasi che siamo tutti
protagonisti di una storia scritta da un dodicenne idiota, poi invece
penso alle cose da cucire.
ù
[...ti senti bene?]
Hai mai imparato a cucire, tu? Io mai.
Però mi ricordo nonna Jenna che si
diverte a fare le sciarpe, le fa ancora? E i maglioni?
…
Sai...
Ho l'impressione che la vita che
viviamo è come intessere una tela, e ognuno ha la sua parte.
All'inizio ti sembra che vada tutto troppo veloce, è una specie di
schifezza: poi ad un certo punto guardi da lontano e ti rendi conto
che i fili hanno un senso, che il lavoro è passabile, oppure una
gran bella cazzata...ma non lo sai fino alla fine, non te ne rendi
conto fino a quando non hai finito e capisci di aver perso un punto,
che nel tuo pezzo c'è un buco.
E io spero vivamente che la parte che
sto cucendo io non finisca per crollare e distruggere il lavoro che
hanno fatto anche gli altri, quelli che stimo, che amo. Qualche
buchino me lo posso permettere, qualche piccola mancanza, ma il resto
no. Io non mi posso permettere errori...di trama, ecco.
Ha, capito la battuta?
Ecco qua.
E poi mica è un lavoro da fare da
solo, nossignore. C'è tanta gente che lavora con te, persone che
collaborano, persone che cercano di disfarti la tela quando non stai
guardando, persone con un coltello affilato e persone con la quale ti
rendi conto di aver stretto un rapporto così forte da non saper
distinguere i tuoi fili dai loro.
E ti rendi conto che se mai venisse a
mancare quell'intreccio allora sì che sarebbe un bel guaio. Uno si
chiede anche come ha fatto a viverci senza, prima.
Vaffanculo, mi sembra di essere in
ritardo e di correre dietro ad uno stramaledetto autobus, riuscirò a
saltarci sopra per scoprire che è pienissimo e non ho nemmeno fatto
il biglietto.
[Hai bisogno di
berti una birra.]
Lo so.
domenica 18 settembre 2016
It runs in the family
Albany, 8/08/2024, ore 22.30
La caffetteria dove hanno scelto di vedersi è vicina all'aeroporto internazionale di Albany, un posto neutro e lontano da qualsiasi ricordo.
Il telepate è arrivato in anticipo, troppo inquieto per stare fermo.
Anche ora che si è seduto ad uno dei tavolini, un'enorme bicchiere di té freddo davanti, deve faticare per restare seduto, un piede che dondola a ritmo con la musica di sottofondo, le dita che tamburellano sulla superficie economica e un po' sbreccata del tavolo.
È riuscito a contattare Constantine grazie a Mary ed Alexander, stupiti quanto e forse più di lui dalla richiesta, e continua a sentirsi incredulo, come se stesse vivendo una specie di sogno al contrario. Incontrare di nuovo suo fratello maggiore dopo tanti anni e poter parlare con lui in termini apparentemente così diversi dovrebbe fargli piacere, ma non riesce a sentire altro che una sorta di sordo timore.
Aveva sperato per anni che le cose cambiassero e Constantine si era talvolta approfittato in modo crudele di quella sua timida speranza. Perchè quella volta avrebbe dovuto essere diversa?
Campanelle tintinnano da qualche parte quando l'ingresso si apre, e per l'ennesima volta si trova a guardare ansiosamente in quella direzione. La bocca si secca, tanto che non riesce a deglutire.
Constantine si è fatto crescere la barba e ha l'aria sbattuta, stanca. Si sta guardando intorno con un nervosismo che Brendan trova immediatamente familiare, una camminata da lupo in gabbia che riconosce come sua e che gli mette inquietudine addosso. Non è lo stesso di sempre.
È il telepate ad alzare una mano per farsi notare, di malavoglia. Il sorriso del fratello maggiore è ampio, ma lui non riesce a ricambiare, e lo squadra mentre si avvicina.
"Vedo che i tuoi gusti in fatto di abbigliamento peggiorano con la lontananza da casa." Constantine è elegante, impeccabile se non fosse per la camicia sgualcita. Sembra quasi appena uscito da lavoro.
Brendan non riesce a parlare. Si limita a guardarlo senza alzare la testa, inespressivo.
"Che stai combinando? Sei riuscito a far preoccupare perfino me. Se mi hai fatto salire fin quassù per niente..."
Non può alzare la voce, fredda come l'espressione, ma Constantine sembra capire, anche oltre la musica e il chiacchiericcio della scarsissima gente della tarda serata, e scuote la testa con un movimento vivace.
"Dritti al punto, eh? Ti ricordavo chiacchierone. Hai anche ragione a comportarti così, vero?" Il suo sorriso, stavolta, è triste, ma gli occhi chiari non smettono di analizzarlo per un attimo. È facile notare come eluda la domanda, con eleganza. "Sembri stanco morto. Da quanto sei ad Albany?".
Brendan alza le spalle, un movimento neutro. Non riesce a capire esattamente cosa stia provando: è come se ci fosse un vetro resistente a dividere i semplici fatti dalla nostalgia, o da qualunque altra emozione.
Non riesce a trovare comprensione, solo un buco vuoto e pulsante lì dove una volta c'era qualcosa...forse affetto, forse odio, forse entrambi insieme.
Si è quasi dimenticato come si fa a stare insieme al fratello senza sentirsi male.
"Da ieri mattina. Sono rimasto a casa dei nostri genitori. Ora facciamola finita, che dici? Fammi capire che diamine ti sta succedendo, e poi ognuno per la sua strada.".
Per un attimo Constantine sembra combattuto. Sul suo volto scompare la sicurezza e si alternano espressioni contrastanti, difficili da decifrare, quasi come se due persone diverse lottassero per prendere il sopravvento.Quando parla esita, schiarendosi la voce.
"E' un po' difficile da spiegare. È successo di tutto, ma...soprattutto...volevo dirti..alcune cose. E magari...presentarti qualcuno."
“Piantala di fare il vago.”
La diffidenza negli occhi di Brendan non sembra diminuire, anzi: si mescola con un pizzico di aperta ostilità.
"Non vuoi rispondermi apertamente? Fatti tuoi, ma se hai intenzione di presentarmi di nuovo qualcuno di quei gruppi di spostati che credono di poter curare i tipi come me la risposta è: vai a farti fottere".
Sta quasi per finire il suo tè ed alzarsi quando il fratello lo blocca per un braccio, supplichevole, disperato.
"No, no...non è come pensi." Constantine stavolta ha lo sguardo di chi sta cadendo nel vuoto e non ha niente a cui aggrapparsi.
"Non si tratta di questo. E'..."
Un sospiro, e poi una lunga pausa, il silenzio del tuffatore che si lancia in un'acqua nera.
"Non credo di avere scelta, è tutto troppo incasinato e non ti fidi di me. Sei un telepate, no? Guardami nella testa".
Quella frase è così inaspettata che Brendan si strozza con il tè, finendo per sputacchiarlo ovunque, tossendo.
Il telepate si ritrova addosso gli sguardi preoccupati di avventori e camerieri, e la mano del fratello che gli batte la schiena.
Senza pensarci due volte si ritrae, scattando in piedi, guardando Constantine con occhi sbarrati, un dolore sordo che cresce nel petto e che trova orribilmente familiare. Un dolore che è fatto di vecchi insulti, trappole e sguardi carichi di rancore.
"Cosa hai detto?"
L'avvocato si fa guardingo, e annuisce, guardandolo con una complicità che gli fa montare una rabbia sorda e cieca, come fuoco nel petto.
"Hai capito...non posso spiegarti cosa succede se..."
"A quanto pare non dovevo credere a quello che mi diceva Hector, eh? Cambiato un cazzo. Bel modo per tentare di mettermi nei guai.". Gli sibila Brendan, chinandosi appena e combattendo l'istinto che gli suggerisce di prenderlo per il collo. "Mi prendi per scemo? Vaffanculo.".
Senza curarsi più di niente, scatta via, digrignando i denti come un cane rabbioso.
"Brendan! Aspetta!" Constantine non ha perso tempo e lo raggiunge dopo pochissimo, di corsa. Cerca perfino di afferrarlo per una spalla, facendolo girare di scatto.
La risposta furente del telepate non si fa attendere: il pugno chiuso colpisce lo stomaco del fratello con tutta la forza che ha a disposizione, con tutta la frustrazione accumulata da anni.
I precedenti pasti del rampante avvocato Scott vanno a far compagnia al freddo asfalto del marciapiede quando lui si china per vomitare probabilmente anche l'anima.
"Speravo che fosse cambiato davvero qualcosa!" Brendan deve lottare per non urlare, e non gli importa nemmeno che intorno a loro si sia creato un piccolo capannello di curiosi.
"Che tu l'avessi smessa con le stronzate!"
Non ce la fa ad impedire che la voce si spezzi e tremi come sta tremando lui, i pugni chiusi per attaccare ancora.
Finalmente il telepate fa per girarsi, ma una mano freddissima e molliccia lo blocca ancora. Il fratello maggiore non sembra voler mollare, ed è quell'insistenza che comincia a sciogliere quel nodo di rabbia che gli pesa nel petto.
"Non...ti sto prendendo in giro...non è come pensi." Dice Constantine, faticando a riprendere fiato e massaggiandosi lo stomaco, con un'espressione assai dolorante.
"Ho bisogno...ho bisogno del tuo aiuto. Sul serio. Ma...se non mi guardi nella testa non posso spiegarti niente. Puoi farlo, vero?"
Brendan socchiude gli occhi, anni di diffidenza ben stampati nella mente e in volto, e si guarda intorno, senza risparmiare occhiate truci alla gente che, già a distanza di sicurezza,comincia ora a girare alla larga.
"Non qui. Se è di nuovo un trucco per denunciarmi ti faccio vedere l'inferno. Stavolta non c'è mamma a fermarti, ma non potrà nemmeno fermare me da quello che ti farò. D'accordo?"
La risatina di Constantine si trasforma in un accesso di tosse, ma, per qualche motivo, lui comincia a ghignare, un brutto sorriso storto.
"Immagino di meritarmi questo trattamento. Beh, nessuno mi ha detto che fosse facile."
L'avvocato scuote la testa quando accetta il braccio del fratello minore che, riluttante, lo aiuta a rimettersi in piedi.
"Non ho la minima intenzione di farti del male in alcun modo, fratellino. Stavolta devi credermi".
Con un sospiro, e un ultimo colpo di tosse, l'uomo fa un cenno, cominciando a camminare.
"Vieni da me. Ho una macchina, facciamo prima."
La casa di Constantine non è quella che si ricorda, un appartamento elegantissimo in centro che lui aveva avuto l'onore di vedere una sola volta.
Quella è poco più di un monolocale in un condominio e la zona è molto più periferica. Un posto vagamente squallido che non gli piace per niente.
Brendan si guarda intorno a disagio, senza rendersi conto che il fratello non l'ha perso di vista nemmeno per un attimo.
“Lo so, non è quella che ti ricordi, ma...ci sto lavorando. La casa l'ho lasciata a Louise, non mi andava di restare lì. Allora, vuoi qualcosa da bere?”
Il telepate scuote la testa, in silenzio: sembra ancora ostile, sulla difensiva, e Constantine decide che non è il momento di fare conversazione casuale.
Dopo aver chiuso la porta della sua stanza si gira verso il fratello, che sembra quasi una bestiola selvatica, e prende un respiro profondo.
"Hai ancora paura di me. Non ti biasimo." Quella non è una domanda, ma una frase che sa di amaro.
"Sono stato un bastardo, lo so. Puoi fidarti solo stavolta? Poi deciderai cosa fare, non credo che potrai perdonarmi dopo quello che ti ho fatto, ma..."
Di nuovo il tono di voce dell'uomo diventa supplichevole, a disagio, e per un attimo Brendan intravede un lampo di disperazione nel suo sguardo.
“Ho bisogno di te. Ti prego.”
Nessuna risposta da parte di un telepate ancora arrabbiato, solo sguardi gelidi. Il fratello maggiore fa qualche passo indietro, aprendo le braccia, con un sorriso amaro che sembra renderlo più vecchio.
"Vuol dire che mi fiderò prima io."
Brendan rimane al suo posto, fisso ed immobile anche quando Constantine si allontana, anche quando chiude gli occhi e apre le braccia, prendendo un respiro profondo.
Il telepate fa un salto all'indietro quando sente rumore di tessuto che si strappa, e il suo sguardo corre immediatamente alla porta. Qualcosa, però, annulla all'improvviso tutti i suoi propositi di fuga: qualcosa che sta succedendo al fratello maggiore.
Sulla sua pelle, sui suoi vestiti, dappertutto si sta formando un intrico di filamenti simili ad una ragnatela spessa, che lo ricopre completamente nell'arco di pochi secondi.
Al posto di Constantine c'è una creatura pallida e calva che lo fissa con enormi occhi dorati e gli sorride, calorosa. I suoi denti sono aguzzi.
Brendan sente che la gambe gli si fanno molli, e si ritrova seduto a terra senza nemmeno rendersene conto, le orecchie che gli ronzano.
Constantine, o quello che è ora, scatta verso di lui, ma si ferma di botto, portandosi le mani palmate alle tempie . Sembra fare uno sforzo notevole per ritirare quei filamenti e tornare quello di sempre, come se non riuscisse a controllarsi.
Dopodiché è facile raggiungere il fratello minore e accoccolarsi vicino a lui.
“Stai bene?”. Sono le prime parole che gli dice, poggiando la schiena al muro e chiudendo gli occhi.
“Quando? Che cosa...? Chi è...?”
Alle parole sconvolte del telepate, l'uomo, anzi, il simbionte ridacchia.
“Hai capito cosa sono ora, vero? Mi sa che in quella Scuola ti insegnano molto più di quanto tu dica. Lei è lady Ywain. E al momento è parecchio contenta di conoscerti, e mi sa che non sa ancora con chi ha a che fare. Capito perché dovevi entrarmi nella testa, idiota?”
Brendan riesce ad allungarsi per guardare meglio il fratello e comincia a ridacchiare anche lui suo malgrado.
“...tra tutti i nomi proprio Ywain? Lady? Non c'è storia, tu vai proprio a scegliertele di classe.”
In breve, senza nemmeno sapere come, i due fratelli si ritrovano a sghignazzare, entrambi seduti a terra, schiena contro la parete. Questo, almeno, fino a quando il telepate non riprende fiato, e si fa più serio.
“Sul serio...cos'è successo?”
Constantine, sospira, e si alza, togliendosi la polvere dai pantaloni.
“Mi stai chiedendo una storia maledettamente lunga. Birra?”
Il simbionte torna dopo poco, porge a Brendan una delle due lattine che aveva in mano e si risiede, prendendo a parlare dopo una brevissima pausa, interrotta solo dal suono secco di linguette che si strappano.
Era successo poco dopo che il fratello minore era partito per Philadelphia. Quasi un anno prima.
Constantine era sempre stato una persona intelligente, o almeno si era considerato come tale. Avvocato rampante, già inserito in circoli politici interessanti, aveva sempre visto il suo futuro come un curva sempre in ascesa.
A trentadue anni il suo mondo tranquillo aveva subito uno scossone imprevisto, e quella curva famosa aveva preso tutt'altro andamento.
Era cominciato tutto da una coincidenza.
Il suo studio aveva deciso di mollargli un nuovo caso, uno di quelli spinosi che solo i veri sciacalli avrebbero accettato di prendere in considerazione.
Si era trovato di fronte ad una madre, una giovane donna il cui figlio, mutante come lei, era stato ucciso dal compagno in quello che si voleva far passare come incidente.
Aveva rifiutato il caso, di malo modo, senza nemmeno dare mezza occhiata ai suoi fascicoli, pensando ad uno scherzo: non potevano affidare una cosa del genere proprio a lui!
Insomma, per quanto fosse disposto a fare qualunque cosa per la sua carriera...questo era troppo.
Non poteva difendere un accidenti di mostro, per quanta risonanza avrebbe potuto avere vincere il caso. Ne sarebbe andato della sua reputazione, dei suoi appoggi, di tutto. Avrebbe rischiato di rovinare una possibile carriera politica, o l'ascesa verso circoli più importanti.
Che ne sapeva, poi?Avrebbe potuto essere un vero incidente, considerato l'elevato pericolo insito in tutte le capacità di quei maledetti errori. Poteva allora considerarsi autodifesa, e lui non riusciva nemmeno a biasimare quella persona.
Nessun altro voleva prendere un mare di spine come quello, e perciò quel particolare caso era stato rifiutato.
Nessuno avrebbe potuto immaginare la veemente risposta della giovane madre, che era comparsa più volte allo studio, senza mai arrendersi.
La prima volta che l'aveva vista litigare con la segreteria aveva ridacchiato, poi l'aveva ignorata, alla fine si era addirittura arrabbiato, tanto che l'aveva trascinata nel suo studio e avevano cominciato una violenta discussione durata più di un'ora.
E quanto aveva lottato! Aveva portato nuove prove, nuove testimonianze, si era appellata alla giustizia e all'umano buonsenso. Constantine l'aveva cacciata di malo modo.
All'inizio, passato il momento di rabbia, tutto sembrava normale: aveva ripreso la sua vita come sempre, e la donna non si era ripresentata, con enorme sollievo di tutti quanti. La sua mente, tuttavia, stava lavorando in sottofondo, stava mettendo insieme i pezzi del puzzle.
Senza alcun preavviso, aveva cominciato a sognarla. Aveva cominciato a sognare quegli occhi furiosi.
Il suo sguardo era talmente feroce, talmente disperato che si era piantato nel cervello come un tarlo, e lì aveva cominciato a scavare, e scavare, e scavare.
Ogni volta, ogni santa volta, poteva sentire la sua occhiata di accusa ancora bruciargli dietro la nuca, quando si era girato per aprirle poco gentilmente la porta.
Sempre più spesso si trovava a pensare al fratello, proprio a Brendan.
Alla sua espressione ferita, alle sue fughe, ai giorni in cui tornava disperato da scuola solo per trovare ostilità anche a casa.
Suo fratello aveva rischiato di finire come quel ragazzino: anche quello era stato etichettato come un semplicissimo incidente, un inconveniente i cui colpevoli non avrebbero mai avuto una faccia. L'avevano quasi ammazzato a forza di botte e lui gli aveva voltato le spalle, proprio come aveva voltato le spalle a quella donna.
In comune avevano una sola cosa: un semplicissimo gene.
Constantine aveva tentato di razionalizzare, ma le giustificazioni su cui aveva fondato una vita non riuscivano più a reggere. Pericolosi? Innocui? Fuori controllo, abomini? Innocenti? Animali? Persone?
Lo stesso tessuto di cui era composta la sua vita aveva cominciato a sfaldarsi, un pezzo alla volta. Non poteva tornare a casa, non poteva stare in compagnia quando quei dubbi lo tormentavano giorno e notte.
La sua stessa esistenza, la stessa vita per cui aveva combattuto così fieramente, i suoi amici, sua moglie, tutti i suoi ideali: quelle cose stavano barcollando improvvisamente, come assi di legno marcio in un ponte sospeso.
Aveva cominciato a sentire schifo anche verso se stesso, e quello lì proprio non era riuscito a razionalizzarlo, non più.
A disagio perfino con se stesso senza capire bene il perché, Constantine si era trovato a girare in piena notte per il parco, la sua pistola tra le mani.
Meditava strani pensieri, istinti che si infiltravano nella sua mente come fumi velenosi...e invece l'aveva trovato lei.
Ywain. Una piccola, luminosa creatura vagante in cerca di anime sperdute.
Si era legata a Constantine senza chiedere alcun permesso.
Lui si era svegliato la mattina dopo senza ricordare alcunché, senza più pistola, bagnato fradicio e con un forte mal di testa.
“Sembrava una sbronza, Brendan, ti giuro. Solo che ad un certo punto lei ha cominciato a parlarmi nella testa. E..mi sono trasformato nel bagno di casa. Mi sono chiuso due giorni dentro, Louise pensava fossi impazzito.”
Aveva addirittura meditato di andare da uno psichiatra, sicuro anche lui di aver perso qualche rotella, ma Ywain l'aveva nuovamente bloccato. Aveva cominciato a parlare, a parlare, e non si era più fermata, spiegandogli finalmente tutto.
La cacciatrice di anime in pena, la guida dei tormentati l'aveva trovato, e forse chissà, sarebbe riuscita a farne qualcosa di lui e della sua vita incasinata. Quello era l'unico scopo della sua lunga vita, decenni, molti più di quanto potesse immaginare.
La sua pressione continuava ad essere costante, continua: talmente forte, talmente traumatica che lui era tornato a parlare con la donna, era andato a scusarsi in ginocchio, sperando di liberarsi di quella vocina insistente che non lo faceva dormire di notte.
Aveva addirittura accettato di difenderla in tribunale e con i suoi colleghi, ma l'ufficio aveva ormai rigettato il caso, e non c'era più verso di tornare indietro. Stava attirando qualche occhiata perplessa di troppo.
Non ci aveva pensato due volte: si era licenziato in tronco, rinunciando per disperazione a tutte le sue ambizioni, e aveva accettato di difenderla di ufficio. Il caso era ancora in corso, complesso e spinoso come avevano previsto.
Questo aveva rovinato il suo matrimonio. Louise si era arrabbiata con lui, era diventata amara e cattiva, e lui aveva cominciato a vederla con occhi nuovi. I silenzi erano diventati ghigliottine, e avevano divorziato di lì a breve.
Ma Ywain non l'aveva lasciato e non si era zittita, per niente. Pian piano avevano fatto amicizia, pian piano aveva cominciato ad apprezzare la sua calma e la sua gentilezza... ma era impossibile ignorare le sue parole, pesanti come macigni. Non riusciva nemmeno ad odiarla, non più. Non riusciva a darle torto. Non quando le sue parole corrispondevano ai suoi sospetti.
Aveva cominciato a parlargli anche di Brendan, di nuovo aveva cominciato a fargli pressione, fino a quando non l'aveva chiamato...e ora erano lì, appoggiati ad un muro, a parlare.
“
Io non...volevo questo, fratellino. Non so che fare. Non...lo voglio. Ma non so dove...cosa...”
Le parole di Constantine si fanno incoerenti, e poi si spezzano, la voce che si fa sottile come quella di un bambino.
“Non so più chi sono.”
Per quanto cerchi di sforzarsi, Brendan non riesce a trovare niente da dire. L'unica cosa che gli viene in mente è mettere una mano sulla spalla del fratello, che non si scosta.
“Pensi di registrarti?” È la prima domanda cauta e preoccupata del telepate dopo un lungo silenzio.
“Non lo sanno nemmeno i nostri genitori. Nemmeno Hector..e non glielo dovrai dire.”
Constantine scuote la testa, poggiando il mento sulle ginocchia, rannicchiato, ma sogghigna, un'espressione orribile e ritorta.
“Non credo che mi libererò presto di Ywain, non mi illudo, ma non voglio essere marchiato a fuoco. Ce l'hai presente quell'SSA, vero? Passerà, e io... Non voglio essere visto come quello che non sono.”
Un'ondata improvvisa di frustrazione investe Brendan, che sbuffa, cercando di controllare l'impulso di allontanarsi a quelle ultime parole un po' sprezzanti.
“Benvenuto nel mio mondo, allora”.
L'occhiata improvvisamente ferita e sperduta del fratello maggiore gli fa venire voglia di rimangiarsi quelle parole acide, e fa quasi per parlare quando lui lo interrompe, con un sospiro.
“Scusa, ho esagerato. È che...è difficile abituarsi. Non...”
“Per qualunque cosa lo sai che puoi contare su di me, d'accordo?”
Le parole veementi del telepate fanno sorridere Constantine, che si allunga per arruffargli i capelli, un gesto così familiare e allo stesso tempo lontano da far venire il magone ad entrambi.
“D'accordo. Ma ora finiamola di stare seduti qui come due deficienti, che dici? Ti offro una pizza. Abbiamo dieci anni da raccontarci.”
La caffetteria dove hanno scelto di vedersi è vicina all'aeroporto internazionale di Albany, un posto neutro e lontano da qualsiasi ricordo.
Il telepate è arrivato in anticipo, troppo inquieto per stare fermo.
Anche ora che si è seduto ad uno dei tavolini, un'enorme bicchiere di té freddo davanti, deve faticare per restare seduto, un piede che dondola a ritmo con la musica di sottofondo, le dita che tamburellano sulla superficie economica e un po' sbreccata del tavolo.
È riuscito a contattare Constantine grazie a Mary ed Alexander, stupiti quanto e forse più di lui dalla richiesta, e continua a sentirsi incredulo, come se stesse vivendo una specie di sogno al contrario. Incontrare di nuovo suo fratello maggiore dopo tanti anni e poter parlare con lui in termini apparentemente così diversi dovrebbe fargli piacere, ma non riesce a sentire altro che una sorta di sordo timore.
Aveva sperato per anni che le cose cambiassero e Constantine si era talvolta approfittato in modo crudele di quella sua timida speranza. Perchè quella volta avrebbe dovuto essere diversa?
Campanelle tintinnano da qualche parte quando l'ingresso si apre, e per l'ennesima volta si trova a guardare ansiosamente in quella direzione. La bocca si secca, tanto che non riesce a deglutire.
Constantine si è fatto crescere la barba e ha l'aria sbattuta, stanca. Si sta guardando intorno con un nervosismo che Brendan trova immediatamente familiare, una camminata da lupo in gabbia che riconosce come sua e che gli mette inquietudine addosso. Non è lo stesso di sempre.
È il telepate ad alzare una mano per farsi notare, di malavoglia. Il sorriso del fratello maggiore è ampio, ma lui non riesce a ricambiare, e lo squadra mentre si avvicina.
"Vedo che i tuoi gusti in fatto di abbigliamento peggiorano con la lontananza da casa." Constantine è elegante, impeccabile se non fosse per la camicia sgualcita. Sembra quasi appena uscito da lavoro.
Brendan non riesce a parlare. Si limita a guardarlo senza alzare la testa, inespressivo.
"Che stai combinando? Sei riuscito a far preoccupare perfino me. Se mi hai fatto salire fin quassù per niente..."
Non può alzare la voce, fredda come l'espressione, ma Constantine sembra capire, anche oltre la musica e il chiacchiericcio della scarsissima gente della tarda serata, e scuote la testa con un movimento vivace.
"Dritti al punto, eh? Ti ricordavo chiacchierone. Hai anche ragione a comportarti così, vero?" Il suo sorriso, stavolta, è triste, ma gli occhi chiari non smettono di analizzarlo per un attimo. È facile notare come eluda la domanda, con eleganza. "Sembri stanco morto. Da quanto sei ad Albany?".
Brendan alza le spalle, un movimento neutro. Non riesce a capire esattamente cosa stia provando: è come se ci fosse un vetro resistente a dividere i semplici fatti dalla nostalgia, o da qualunque altra emozione.
Non riesce a trovare comprensione, solo un buco vuoto e pulsante lì dove una volta c'era qualcosa...forse affetto, forse odio, forse entrambi insieme.
Si è quasi dimenticato come si fa a stare insieme al fratello senza sentirsi male.
"Da ieri mattina. Sono rimasto a casa dei nostri genitori. Ora facciamola finita, che dici? Fammi capire che diamine ti sta succedendo, e poi ognuno per la sua strada.".
Per un attimo Constantine sembra combattuto. Sul suo volto scompare la sicurezza e si alternano espressioni contrastanti, difficili da decifrare, quasi come se due persone diverse lottassero per prendere il sopravvento.Quando parla esita, schiarendosi la voce.
"E' un po' difficile da spiegare. È successo di tutto, ma...soprattutto...volevo dirti..alcune cose. E magari...presentarti qualcuno."
“Piantala di fare il vago.”
La diffidenza negli occhi di Brendan non sembra diminuire, anzi: si mescola con un pizzico di aperta ostilità.
"Non vuoi rispondermi apertamente? Fatti tuoi, ma se hai intenzione di presentarmi di nuovo qualcuno di quei gruppi di spostati che credono di poter curare i tipi come me la risposta è: vai a farti fottere".
Sta quasi per finire il suo tè ed alzarsi quando il fratello lo blocca per un braccio, supplichevole, disperato.
"No, no...non è come pensi." Constantine stavolta ha lo sguardo di chi sta cadendo nel vuoto e non ha niente a cui aggrapparsi.
"Non si tratta di questo. E'..."
Un sospiro, e poi una lunga pausa, il silenzio del tuffatore che si lancia in un'acqua nera.
"Non credo di avere scelta, è tutto troppo incasinato e non ti fidi di me. Sei un telepate, no? Guardami nella testa".
Quella frase è così inaspettata che Brendan si strozza con il tè, finendo per sputacchiarlo ovunque, tossendo.
Il telepate si ritrova addosso gli sguardi preoccupati di avventori e camerieri, e la mano del fratello che gli batte la schiena.
Senza pensarci due volte si ritrae, scattando in piedi, guardando Constantine con occhi sbarrati, un dolore sordo che cresce nel petto e che trova orribilmente familiare. Un dolore che è fatto di vecchi insulti, trappole e sguardi carichi di rancore.
"Cosa hai detto?"
L'avvocato si fa guardingo, e annuisce, guardandolo con una complicità che gli fa montare una rabbia sorda e cieca, come fuoco nel petto.
"Hai capito...non posso spiegarti cosa succede se..."
"A quanto pare non dovevo credere a quello che mi diceva Hector, eh? Cambiato un cazzo. Bel modo per tentare di mettermi nei guai.". Gli sibila Brendan, chinandosi appena e combattendo l'istinto che gli suggerisce di prenderlo per il collo. "Mi prendi per scemo? Vaffanculo.".
Senza curarsi più di niente, scatta via, digrignando i denti come un cane rabbioso.
"Brendan! Aspetta!" Constantine non ha perso tempo e lo raggiunge dopo pochissimo, di corsa. Cerca perfino di afferrarlo per una spalla, facendolo girare di scatto.
La risposta furente del telepate non si fa attendere: il pugno chiuso colpisce lo stomaco del fratello con tutta la forza che ha a disposizione, con tutta la frustrazione accumulata da anni.
I precedenti pasti del rampante avvocato Scott vanno a far compagnia al freddo asfalto del marciapiede quando lui si china per vomitare probabilmente anche l'anima.
"Speravo che fosse cambiato davvero qualcosa!" Brendan deve lottare per non urlare, e non gli importa nemmeno che intorno a loro si sia creato un piccolo capannello di curiosi.
"Che tu l'avessi smessa con le stronzate!"
Non ce la fa ad impedire che la voce si spezzi e tremi come sta tremando lui, i pugni chiusi per attaccare ancora.
"Lo so cosa vuoi fare. Ci hai
già provato. Che vuoi dimostrare?” Deglutendo vistosamente, il
giovane si limita a scuotere la testa. “Non mi posso fidare di te.
Si stanno tutti preoccupando per le cazzate che fai e ti permetti
ancora di fare questi giochetti. Sei una carogna, Constantine.
Cresci.".
Finalmente il telepate fa per girarsi, ma una mano freddissima e molliccia lo blocca ancora. Il fratello maggiore non sembra voler mollare, ed è quell'insistenza che comincia a sciogliere quel nodo di rabbia che gli pesa nel petto.
"Non...ti sto prendendo in giro...non è come pensi." Dice Constantine, faticando a riprendere fiato e massaggiandosi lo stomaco, con un'espressione assai dolorante.
"Ho bisogno...ho bisogno del tuo aiuto. Sul serio. Ma...se non mi guardi nella testa non posso spiegarti niente. Puoi farlo, vero?"
Brendan socchiude gli occhi, anni di diffidenza ben stampati nella mente e in volto, e si guarda intorno, senza risparmiare occhiate truci alla gente che, già a distanza di sicurezza,comincia ora a girare alla larga.
"Non qui. Se è di nuovo un trucco per denunciarmi ti faccio vedere l'inferno. Stavolta non c'è mamma a fermarti, ma non potrà nemmeno fermare me da quello che ti farò. D'accordo?"
La risatina di Constantine si trasforma in un accesso di tosse, ma, per qualche motivo, lui comincia a ghignare, un brutto sorriso storto.
"Immagino di meritarmi questo trattamento. Beh, nessuno mi ha detto che fosse facile."
L'avvocato scuote la testa quando accetta il braccio del fratello minore che, riluttante, lo aiuta a rimettersi in piedi.
"Non ho la minima intenzione di farti del male in alcun modo, fratellino. Stavolta devi credermi".
Con un sospiro, e un ultimo colpo di tosse, l'uomo fa un cenno, cominciando a camminare.
"Vieni da me. Ho una macchina, facciamo prima."
La casa di Constantine non è quella che si ricorda, un appartamento elegantissimo in centro che lui aveva avuto l'onore di vedere una sola volta.
Quella è poco più di un monolocale in un condominio e la zona è molto più periferica. Un posto vagamente squallido che non gli piace per niente.
Brendan si guarda intorno a disagio, senza rendersi conto che il fratello non l'ha perso di vista nemmeno per un attimo.
“Lo so, non è quella che ti ricordi, ma...ci sto lavorando. La casa l'ho lasciata a Louise, non mi andava di restare lì. Allora, vuoi qualcosa da bere?”
Il telepate scuote la testa, in silenzio: sembra ancora ostile, sulla difensiva, e Constantine decide che non è il momento di fare conversazione casuale.
Dopo aver chiuso la porta della sua stanza si gira verso il fratello, che sembra quasi una bestiola selvatica, e prende un respiro profondo.
"Hai ancora paura di me. Non ti biasimo." Quella non è una domanda, ma una frase che sa di amaro.
"Sono stato un bastardo, lo so. Puoi fidarti solo stavolta? Poi deciderai cosa fare, non credo che potrai perdonarmi dopo quello che ti ho fatto, ma..."
Di nuovo il tono di voce dell'uomo diventa supplichevole, a disagio, e per un attimo Brendan intravede un lampo di disperazione nel suo sguardo.
“Ho bisogno di te. Ti prego.”
Nessuna risposta da parte di un telepate ancora arrabbiato, solo sguardi gelidi. Il fratello maggiore fa qualche passo indietro, aprendo le braccia, con un sorriso amaro che sembra renderlo più vecchio.
"Vuol dire che mi fiderò prima io."
Brendan rimane al suo posto, fisso ed immobile anche quando Constantine si allontana, anche quando chiude gli occhi e apre le braccia, prendendo un respiro profondo.
Il telepate fa un salto all'indietro quando sente rumore di tessuto che si strappa, e il suo sguardo corre immediatamente alla porta. Qualcosa, però, annulla all'improvviso tutti i suoi propositi di fuga: qualcosa che sta succedendo al fratello maggiore.
Sulla sua pelle, sui suoi vestiti, dappertutto si sta formando un intrico di filamenti simili ad una ragnatela spessa, che lo ricopre completamente nell'arco di pochi secondi.
Al posto di Constantine c'è una creatura pallida e calva che lo fissa con enormi occhi dorati e gli sorride, calorosa. I suoi denti sono aguzzi.
Brendan sente che la gambe gli si fanno molli, e si ritrova seduto a terra senza nemmeno rendersene conto, le orecchie che gli ronzano.
Constantine, o quello che è ora, scatta verso di lui, ma si ferma di botto, portandosi le mani palmate alle tempie . Sembra fare uno sforzo notevole per ritirare quei filamenti e tornare quello di sempre, come se non riuscisse a controllarsi.
Dopodiché è facile raggiungere il fratello minore e accoccolarsi vicino a lui.
“Stai bene?”. Sono le prime parole che gli dice, poggiando la schiena al muro e chiudendo gli occhi.
“Quando? Che cosa...? Chi è...?”
Alle parole sconvolte del telepate, l'uomo, anzi, il simbionte ridacchia.
“Hai capito cosa sono ora, vero? Mi sa che in quella Scuola ti insegnano molto più di quanto tu dica. Lei è lady Ywain. E al momento è parecchio contenta di conoscerti, e mi sa che non sa ancora con chi ha a che fare. Capito perché dovevi entrarmi nella testa, idiota?”
Brendan riesce ad allungarsi per guardare meglio il fratello e comincia a ridacchiare anche lui suo malgrado.
“...tra tutti i nomi proprio Ywain? Lady? Non c'è storia, tu vai proprio a scegliertele di classe.”
In breve, senza nemmeno sapere come, i due fratelli si ritrovano a sghignazzare, entrambi seduti a terra, schiena contro la parete. Questo, almeno, fino a quando il telepate non riprende fiato, e si fa più serio.
“Sul serio...cos'è successo?”
Constantine, sospira, e si alza, togliendosi la polvere dai pantaloni.
“Mi stai chiedendo una storia maledettamente lunga. Birra?”
Il simbionte torna dopo poco, porge a Brendan una delle due lattine che aveva in mano e si risiede, prendendo a parlare dopo una brevissima pausa, interrotta solo dal suono secco di linguette che si strappano.
Era successo poco dopo che il fratello minore era partito per Philadelphia. Quasi un anno prima.
Constantine era sempre stato una persona intelligente, o almeno si era considerato come tale. Avvocato rampante, già inserito in circoli politici interessanti, aveva sempre visto il suo futuro come un curva sempre in ascesa.
A trentadue anni il suo mondo tranquillo aveva subito uno scossone imprevisto, e quella curva famosa aveva preso tutt'altro andamento.
Era cominciato tutto da una coincidenza.
Il suo studio aveva deciso di mollargli un nuovo caso, uno di quelli spinosi che solo i veri sciacalli avrebbero accettato di prendere in considerazione.
Si era trovato di fronte ad una madre, una giovane donna il cui figlio, mutante come lei, era stato ucciso dal compagno in quello che si voleva far passare come incidente.
Aveva rifiutato il caso, di malo modo, senza nemmeno dare mezza occhiata ai suoi fascicoli, pensando ad uno scherzo: non potevano affidare una cosa del genere proprio a lui!
Insomma, per quanto fosse disposto a fare qualunque cosa per la sua carriera...questo era troppo.
Non poteva difendere un accidenti di mostro, per quanta risonanza avrebbe potuto avere vincere il caso. Ne sarebbe andato della sua reputazione, dei suoi appoggi, di tutto. Avrebbe rischiato di rovinare una possibile carriera politica, o l'ascesa verso circoli più importanti.
Che ne sapeva, poi?Avrebbe potuto essere un vero incidente, considerato l'elevato pericolo insito in tutte le capacità di quei maledetti errori. Poteva allora considerarsi autodifesa, e lui non riusciva nemmeno a biasimare quella persona.
Nessun altro voleva prendere un mare di spine come quello, e perciò quel particolare caso era stato rifiutato.
Nessuno avrebbe potuto immaginare la veemente risposta della giovane madre, che era comparsa più volte allo studio, senza mai arrendersi.
La prima volta che l'aveva vista litigare con la segreteria aveva ridacchiato, poi l'aveva ignorata, alla fine si era addirittura arrabbiato, tanto che l'aveva trascinata nel suo studio e avevano cominciato una violenta discussione durata più di un'ora.
E quanto aveva lottato! Aveva portato nuove prove, nuove testimonianze, si era appellata alla giustizia e all'umano buonsenso. Constantine l'aveva cacciata di malo modo.
All'inizio, passato il momento di rabbia, tutto sembrava normale: aveva ripreso la sua vita come sempre, e la donna non si era ripresentata, con enorme sollievo di tutti quanti. La sua mente, tuttavia, stava lavorando in sottofondo, stava mettendo insieme i pezzi del puzzle.
Senza alcun preavviso, aveva cominciato a sognarla. Aveva cominciato a sognare quegli occhi furiosi.
Il suo sguardo era talmente feroce, talmente disperato che si era piantato nel cervello come un tarlo, e lì aveva cominciato a scavare, e scavare, e scavare.
Ogni volta, ogni santa volta, poteva sentire la sua occhiata di accusa ancora bruciargli dietro la nuca, quando si era girato per aprirle poco gentilmente la porta.
Sempre più spesso si trovava a pensare al fratello, proprio a Brendan.
Alla sua espressione ferita, alle sue fughe, ai giorni in cui tornava disperato da scuola solo per trovare ostilità anche a casa.
Suo fratello aveva rischiato di finire come quel ragazzino: anche quello era stato etichettato come un semplicissimo incidente, un inconveniente i cui colpevoli non avrebbero mai avuto una faccia. L'avevano quasi ammazzato a forza di botte e lui gli aveva voltato le spalle, proprio come aveva voltato le spalle a quella donna.
In comune avevano una sola cosa: un semplicissimo gene.
Constantine aveva tentato di razionalizzare, ma le giustificazioni su cui aveva fondato una vita non riuscivano più a reggere. Pericolosi? Innocui? Fuori controllo, abomini? Innocenti? Animali? Persone?
Lo stesso tessuto di cui era composta la sua vita aveva cominciato a sfaldarsi, un pezzo alla volta. Non poteva tornare a casa, non poteva stare in compagnia quando quei dubbi lo tormentavano giorno e notte.
La sua stessa esistenza, la stessa vita per cui aveva combattuto così fieramente, i suoi amici, sua moglie, tutti i suoi ideali: quelle cose stavano barcollando improvvisamente, come assi di legno marcio in un ponte sospeso.
Aveva cominciato a sentire schifo anche verso se stesso, e quello lì proprio non era riuscito a razionalizzarlo, non più.
A disagio perfino con se stesso senza capire bene il perché, Constantine si era trovato a girare in piena notte per il parco, la sua pistola tra le mani.
Meditava strani pensieri, istinti che si infiltravano nella sua mente come fumi velenosi...e invece l'aveva trovato lei.
Ywain. Una piccola, luminosa creatura vagante in cerca di anime sperdute.
Si era legata a Constantine senza chiedere alcun permesso.
Lui si era svegliato la mattina dopo senza ricordare alcunché, senza più pistola, bagnato fradicio e con un forte mal di testa.
“Sembrava una sbronza, Brendan, ti giuro. Solo che ad un certo punto lei ha cominciato a parlarmi nella testa. E..mi sono trasformato nel bagno di casa. Mi sono chiuso due giorni dentro, Louise pensava fossi impazzito.”
Aveva addirittura meditato di andare da uno psichiatra, sicuro anche lui di aver perso qualche rotella, ma Ywain l'aveva nuovamente bloccato. Aveva cominciato a parlare, a parlare, e non si era più fermata, spiegandogli finalmente tutto.
La cacciatrice di anime in pena, la guida dei tormentati l'aveva trovato, e forse chissà, sarebbe riuscita a farne qualcosa di lui e della sua vita incasinata. Quello era l'unico scopo della sua lunga vita, decenni, molti più di quanto potesse immaginare.
La sua pressione continuava ad essere costante, continua: talmente forte, talmente traumatica che lui era tornato a parlare con la donna, era andato a scusarsi in ginocchio, sperando di liberarsi di quella vocina insistente che non lo faceva dormire di notte.
Aveva addirittura accettato di difenderla in tribunale e con i suoi colleghi, ma l'ufficio aveva ormai rigettato il caso, e non c'era più verso di tornare indietro. Stava attirando qualche occhiata perplessa di troppo.
Non ci aveva pensato due volte: si era licenziato in tronco, rinunciando per disperazione a tutte le sue ambizioni, e aveva accettato di difenderla di ufficio. Il caso era ancora in corso, complesso e spinoso come avevano previsto.
Questo aveva rovinato il suo matrimonio. Louise si era arrabbiata con lui, era diventata amara e cattiva, e lui aveva cominciato a vederla con occhi nuovi. I silenzi erano diventati ghigliottine, e avevano divorziato di lì a breve.
Ma Ywain non l'aveva lasciato e non si era zittita, per niente. Pian piano avevano fatto amicizia, pian piano aveva cominciato ad apprezzare la sua calma e la sua gentilezza... ma era impossibile ignorare le sue parole, pesanti come macigni. Non riusciva nemmeno ad odiarla, non più. Non riusciva a darle torto. Non quando le sue parole corrispondevano ai suoi sospetti.
Aveva cominciato a parlargli anche di Brendan, di nuovo aveva cominciato a fargli pressione, fino a quando non l'aveva chiamato...e ora erano lì, appoggiati ad un muro, a parlare.
“
Io non...volevo questo, fratellino. Non so che fare. Non...lo voglio. Ma non so dove...cosa...”
Le parole di Constantine si fanno incoerenti, e poi si spezzano, la voce che si fa sottile come quella di un bambino.
“Non so più chi sono.”
Per quanto cerchi di sforzarsi, Brendan non riesce a trovare niente da dire. L'unica cosa che gli viene in mente è mettere una mano sulla spalla del fratello, che non si scosta.
“Pensi di registrarti?” È la prima domanda cauta e preoccupata del telepate dopo un lungo silenzio.
“Non lo sanno nemmeno i nostri genitori. Nemmeno Hector..e non glielo dovrai dire.”
Constantine scuote la testa, poggiando il mento sulle ginocchia, rannicchiato, ma sogghigna, un'espressione orribile e ritorta.
“Non credo che mi libererò presto di Ywain, non mi illudo, ma non voglio essere marchiato a fuoco. Ce l'hai presente quell'SSA, vero? Passerà, e io... Non voglio essere visto come quello che non sono.”
Un'ondata improvvisa di frustrazione investe Brendan, che sbuffa, cercando di controllare l'impulso di allontanarsi a quelle ultime parole un po' sprezzanti.
“Benvenuto nel mio mondo, allora”.
L'occhiata improvvisamente ferita e sperduta del fratello maggiore gli fa venire voglia di rimangiarsi quelle parole acide, e fa quasi per parlare quando lui lo interrompe, con un sospiro.
“Scusa, ho esagerato. È che...è difficile abituarsi. Non...”
“Per qualunque cosa lo sai che puoi contare su di me, d'accordo?”
Le parole veementi del telepate fanno sorridere Constantine, che si allunga per arruffargli i capelli, un gesto così familiare e allo stesso tempo lontano da far venire il magone ad entrambi.
“D'accordo. Ma ora finiamola di stare seduti qui come due deficienti, che dici? Ti offro una pizza. Abbiamo dieci anni da raccontarci.”
giovedì 25 agosto 2016
A drop in the bucket
Albany, 07/08/2024, ore 3.57
Alexander si sveglia di soprassalto dal suo sonno leggero: una moto sta passando sotto casa sua, il rombo profondo del motore che d'improvviso si spegne. Un rumore troppo vicino.
Il dottor Scott dà una gomitata alla moglie, che gli dorme beatamente accanto.
"Mary. Mary!"
"...Mh"
"L'hai sentito?"
"Mh?"
"Qualcuno si è fermato qui vicino."
"Mh...che vuoi che sia? Lo sai che ore sono? Al...dormi..."
La donna si gira dall'altro lato senza nemmeno dire un'altra parola, e il respiro subito le torna pesante.
Alex invece ha scoperto che, con l'estate e gli acciacchi della mezza età, è diventato molto più difficile riprendere sonno.
Quel silenzio, dopo il rombo della moto, però è invitante, tanto. Sta per richiudere gli occhi, rassicurato, quando altri suoni, tintinnio di chiavi e una porta che si apre, lo consegnano definitivamente al mondo dei vivi.
La paura lo invade come acqua gelida, gli restituisce lucidità e capacità di decisione.
Senza svegliare la moglie, il medico decide di alzarsi, evitando le pantofole per non fare rumore. Sono soli in casa: Hector si è da tempo trasferito al college, Constantine ha la sua vita e i suoi problemi e Brendan...beh, meglio non pensare a lui.
La loro zona non è più sicura come un tempo, tanto da spingerli a considerare un trasferimento. Troppa gente conosce la mutazione del loro secondo figlio, e troppi di loro hanno il sangue bollente.
Nel frattempo, il dottor Scott ha pensato ad armarsi, a suo modo.
Da sotto il letto, con un'elasticità che non credeva ancora possibile per i suoi cinquantotto anni, prende una mazza da baseball ed esce dalla stanza da letto, scendendo le scale silenzioso come un gatto.
Non è altrettanto silenzioso lo sconosciuto: dopo aver aperto e richiuso la porta è andato a sbattere contro il nuovo portaombrelli, facendolo cadere. Alexander riesce a sentire anche il borbottio di quelle che devono essere di sicuro bestemmie.
Lui continua a strisciare, rasente al muro, fino a quando, nel buio, non nota una figura proprio davanti alla finestra. Alza la mazza, pronto a colpire.
In quel momento, la luce si accende.
"Ehi ehi ehi ehi!" Brendan fa cadere il suo vecchio zaino nero e fa un salto all'indietro, spaventato, alzando le mani come un ladro preso di soppiatto. "Giù quella cosa!"
Ad Alexander per poco non viene un infarto. Guarda suo figlio portandosi una mano al cuore, e la mazza da baseball cade sul tappeto.
"Cosa...come...quando...." Il suo volto è talmente rosso e congestionato che l'espressione di Brendan si fa terrorizzata, ed è quasi sul punto di chiamare qualcuno quando a suo padre torna la voce.
"Come hai fatto ad entrare?"
Un sogghigno, e il telepate fa roteare sull'indice un assurdo portachiavi, un gattino stilizzato. Lo spavento si sta trasformando man mano che torna il colore sul viso di Alexander, e ora lui sembra divertito.
"Ho ancora le chiavi di questa casa, sai? Ciao, pà, come stai? Ooh, ciao figlio, che bello rivederti, mi fa così piacere..."
Il suo sproloquio così familiare strappa un'espressione esasperata ad Alexander, e per un attimo è tutto così normale da essere doloroso.
"Avresti dovuto avvisarci."
Il sorriso di Brendan si fa contrito al tono del padre, e lui si stringe nelle spalle.
"Sorpresa."
Per poco Alex non lo rimprovera, per poco non lo tratta come il ragazzino che un po' è sempre stato...ma non ci riesce e, con sua sorpresa, si ritrova senza parole.
C'è qualcosa di strano nel suo secondo figlio, qualcosa che non riesce a decifrare.
Non è nemmeno passato un anno da quando si è trasferito a Philadelphia, ma, per qualche motivo, sembrano eoni.
Brendan è stanco e si è lasciato un po' crescere la barba, un'ombra appena. Deve essere dimagrito un po', e questo lo rende ancora più allampanato del solito. Il suo gusto nel vestire non è cambiato, camicie strane e colori stridenti, e sopra indossa una giacca nera. Una giacca da motociclista.
In mano ha anche un casco, un orrore pieno di adesivi colorati, ma non è questo che lo rende tanto diverso. Sembra quasi un estraneo.
Alex non riesce a definire cosa ci sia di anomalo, e si ritrova a prendere tempo.
"Sono le quattro del mattino, Brendan...ti rendi conto?"
Il telepate ha il buonsenso di arrossire.
"Ho un po' improvvisato. Ho finito tardi a lavoro, poi me la sono presa comoda sull'Interstate. Non pensavo di svegliarvi, avrei dormito sul divano..."
"Come sei arrivato?"
Anche suo figlio lo sta scrutando e, sotto il ghigno onnipresente e fastidioso, sembra provare la sua stessa attenzione tesa.
"La mia moto, no?" E mugugna, alzando gli occhi al cielo allo sguardo stupito del medico.
"Giusto. Sì, ho una moto. E no, non potevo prendere l'aereo. La corriera è fuori questione, scordatelo. Dai pà, evita quella faccia... sono solo tre ore di viaggio, mica mi sono trasferito in Alaska!"
L'esasperazione ironica nella voce del giovane gli fa venire voglia di prenderlo per le orecchie, ma quando Alexander si muove il corpo agisce da solo, come se avesse una propria volontà.
Le braccia stringono il telepate in un abbraccio caloroso, che lui ricambia senza esitare.
"Non sparire mai più."
Brendan si becca il successivo schiaffetto sulla nuca di buon grado, senza smettere di ghignare.
Anche questo è cambiato. L'ultima volta che era stato lì sembrava un galeotto, tutto occhiate sfuggenti, smorfie e mezzi sorrisi ansiosi celati sotto le solite chiacchiere irritanti.
E gli abbracci...dopo quell'incidente dei suoi sedici anni non si era mai più fidato abbastanza della sua stessa famiglia da accettare un abbraccio senza cercare di allontanarsi subito dopo.
Era stato così per anni.
"Va bene, un pochino me lo merito. Ma sono stato incasinato da morire, nemmeno te lo puoi immaginare quello che succede giù nella vecchia Philly..."
Alexander scruta il figlio, con un rigurgito di preoccupazione. Lui ricambia lo sguardo, e stavolta è il dottore il primo ad abbassarlo.
"Teniamo d'occhio le notizie: lo so quello che sta succedendo, Brendan. E ci preoccupiamo."
Il telepate si limita ad annuire, facendosi di colpo più serio, ma non dice niente per il momento, limitandosi a prendere atto della cosa, con fare un po' vergognoso.
"Scusa. Mi faccio sentire più spesso, te lo prometto."
Poi allunga il collo, guardando dietro le spalle di Alex.
"Mà? Dov'è? Sta bene?"
Il dottore ride sotto i baffi, annuendo.
"Te la vado a chiamare. Aspetta solo che ti veda..."
L'occhiata spaventata del figlio lo fa ridacchiare, mentre lui sale le scale, ancora distratto.
Saranno pure cambiate tante cose, ma il sacro terrore della mamma è ben impresso nei geni di tutta la famiglia Scott.
Ma cosa c'è di diverso in Brendan? Perché ha l'impressione di parlare con lui, ma allo stesso tempo di trovarsi davanti un perfetto sconosciuto?
Forse il modo in cui sostiene lo sguardo.
Ecco, forse è proprio questo: Brendan sembra sicuro di sé.
Si muove, lo guarda e si rivolge a lui come ad un pari, con l'aria decisa di ha capito quale sia la strada da percorrere. Non è più un ragazzino vergognoso, smarrito in un mondo che non capisce. No, non può nemmeno chiamarlo ragazzino, non più.
Mary è veloce a svegliarsi, una caratteristica quasi innaturale che nessuno dei suoi figli ha ereditato.
Da saltare fuori dal letto a prendere letteralmente per le orecchie suo figlio, parecchio più alto di lei, strillandogli una sfilza di rimproveri che sembra infinita, è un attimo.
"Cosa ci fai qui? Ah, ti limiti a mandarci messaggi di tanto in tanto e ora compari all'improvviso, senza dire niente? Non è modo di fare, ti rendi conto? Potrei cacciarti di casa! E poi...arrivare con una moto! Una moto, capisci? Che ti passa per la testa? Sono le quattro del mattino, brutto irresponsabile, chi ti ha insegnato a comportarti in questo modo? Io no di sicuro! Ti sei bevuto il cervello? Tuo padre poteva farti male! Poteva venirgli un infarto! Potevamo avere un cane! Poteva morderti! Potevamo aver messo un allarme! Finivi in carcere!"
Brendan subisce in silenzio la sequela crescente di timori, ma niente, non riesce a smettere quel sorriso impudente che fin da bambino gli costava continue punizioni.
"E' bello vederti in forma, mà."
Si limita finalmente a dire, approfittando di un momento in cui la madre si è fermata per prendere fiato.
Mary lo guarda a bocca spalancata come un pesce senz'acqua, e per un attimo sembra quasi voglia rifilargli un possente ceffone.
L'espressione di Brendan si fa a dir poco scioccata quando invece anche lei lo abbraccia con una forza tale da fargli quasi mancare il fiato, guardandolo poi con gli occhi umidi di chi sta soffocando le lacrime.
"Cretino che non sei altro. Vieni, ti preparo la colazione."
Ormai è quasi l'alba, ma casa Scott è in movimento già da un po': nessuno pensa più a dormire.
"Quindi sei un professore, ora?"
Brendan arrossisce quando nota gli sguardi increduli di entrambi i genitori, e fa in fretta a mandare giù il pancake che sta mangiando.
Ha spiegato loro la situazione in poche semplici parole, ma a quanto pare la confusione sembra aumentata.
"Un insegnante, piuttosto, non usiamo parole grosse. Mi occupo più che altro di dare una mano....a persone simili a me. Che, mi ci vedete a insegnare storia?"
Lui ridacchia, ma non può fare a meno di notare come l'incertezza di Alexander e Mary non sia diminuita nemmeno di un po'.
"Ma...è pericoloso! Dopo tutto quello che sta succedendo alla YGS di Philadelphia... dopo la votazione...perchè vai in cerca di guai? Non ti è bastato..." Alexander sembra rendersi conto di aver detto una parola di troppo, e deglutisce a fatica.
"No. Quello che mi è successo è bastato ed avanzato per una vita intera, ma non si tratta più di andare in cerca di guai."
Il sorriso del telepate si fa un po' storto, e per qualche attimo la sua mente vaga.
Vaga fino a ricordare la furia di uno scorpione gigantesco spuntato da una voragine nell'asfalto, giri di notte per stradine sconosciute con il vuoto in testa, un'esplosione nei pressi di un locale e il suono secco di ossa che si spezzano. Delle sue ossa.
Vaga verso ricordi di un Natale troppo recente passato ad osservare il fondo di un bicchiere, quando solo l'intervento di un volto davvero amico gli aveva impedito di trovare un punto abbastanza alto da cui prendere il volo una volta e per tutte.
Vaga e ricorda di risoluzioni tentennanti e di chiacchierate notturne con un uomo pallido come uno spettro, e della promessa di ricambiare quello che gli è stato dato. Vaga fino a ricordare di tutte le volte in cui ha stretto i denti e ha ricominciato a lottare.
Ricorda riunioni ed allenamenti, ricorda proteste e persone, vive e morte, i cui volti può rievocare anche ad occhi aperti.
"E' pericoloso anche se non facessi quello che faccio." Continua deciso, stupendosi lui stesso della calma con cui affronta l'argomento.
"Siamo arrivati ad un punto in cui possiamo stare a guardare o fare qualcosa per cambiare questo schifo, e io non intendo stare fermo un attimo più del necessario. Ho imparato a gestire quello che sono, ho imparato ad usare le mie capacità e non è una cosa che mi fa paura, non più.”
Un sospiro, e il telepate continua, quasi stancamente.
“Se c'è una cosa che posso fare è usarlo come si deve, per quanto posso. Per aiutare tutti quanti, superumani o meno."
Un lungo silenzio accoglie queste ultime parole, ma Brendan scopre che non è più difficile alzare lo sguardo verso i suoi genitori e sostenerlo.
“Credete non abbia pensato alle conseguenze? A quello che potrebbe o non potrebbe capitare? Non è sempre facile, ma... È da quando avevo sedici anni che fuggo come un deficiente. Sono stato un idiota anche con voi, e non sapete quanto mi dispiace, ma...non posso più...”
“Hai ragione tu. Fanculo alle conseguenze.”
La voce che, con sorpresa di tutti, lo interrompe è quella di sua madre. Alexander sembra ancora poco convinto, ma Mary trasuda orgoglio da tutti i pori, e sta sorridendo come non l'aveva mai vista fare prima. Si precipita ad abbracciarlo per l'ennesima volta, con tanta veemenza che per poco il giovane non cade dalla sedia.
"Lo sapevo che saresti diventato un insegnante come me!"
"Ma mamma!"
Alexander si sveglia di soprassalto dal suo sonno leggero: una moto sta passando sotto casa sua, il rombo profondo del motore che d'improvviso si spegne. Un rumore troppo vicino.
Il dottor Scott dà una gomitata alla moglie, che gli dorme beatamente accanto.
"Mary. Mary!"
"...Mh"
"L'hai sentito?"
"Mh?"
"Qualcuno si è fermato qui vicino."
"Mh...che vuoi che sia? Lo sai che ore sono? Al...dormi..."
La donna si gira dall'altro lato senza nemmeno dire un'altra parola, e il respiro subito le torna pesante.
Alex invece ha scoperto che, con l'estate e gli acciacchi della mezza età, è diventato molto più difficile riprendere sonno.
Quel silenzio, dopo il rombo della moto, però è invitante, tanto. Sta per richiudere gli occhi, rassicurato, quando altri suoni, tintinnio di chiavi e una porta che si apre, lo consegnano definitivamente al mondo dei vivi.
La paura lo invade come acqua gelida, gli restituisce lucidità e capacità di decisione.
Senza svegliare la moglie, il medico decide di alzarsi, evitando le pantofole per non fare rumore. Sono soli in casa: Hector si è da tempo trasferito al college, Constantine ha la sua vita e i suoi problemi e Brendan...beh, meglio non pensare a lui.
La loro zona non è più sicura come un tempo, tanto da spingerli a considerare un trasferimento. Troppa gente conosce la mutazione del loro secondo figlio, e troppi di loro hanno il sangue bollente.
Nel frattempo, il dottor Scott ha pensato ad armarsi, a suo modo.
Da sotto il letto, con un'elasticità che non credeva ancora possibile per i suoi cinquantotto anni, prende una mazza da baseball ed esce dalla stanza da letto, scendendo le scale silenzioso come un gatto.
Non è altrettanto silenzioso lo sconosciuto: dopo aver aperto e richiuso la porta è andato a sbattere contro il nuovo portaombrelli, facendolo cadere. Alexander riesce a sentire anche il borbottio di quelle che devono essere di sicuro bestemmie.
Lui continua a strisciare, rasente al muro, fino a quando, nel buio, non nota una figura proprio davanti alla finestra. Alza la mazza, pronto a colpire.
In quel momento, la luce si accende.
"Ehi ehi ehi ehi!" Brendan fa cadere il suo vecchio zaino nero e fa un salto all'indietro, spaventato, alzando le mani come un ladro preso di soppiatto. "Giù quella cosa!"
Ad Alexander per poco non viene un infarto. Guarda suo figlio portandosi una mano al cuore, e la mazza da baseball cade sul tappeto.
"Cosa...come...quando...." Il suo volto è talmente rosso e congestionato che l'espressione di Brendan si fa terrorizzata, ed è quasi sul punto di chiamare qualcuno quando a suo padre torna la voce.
"Come hai fatto ad entrare?"
Un sogghigno, e il telepate fa roteare sull'indice un assurdo portachiavi, un gattino stilizzato. Lo spavento si sta trasformando man mano che torna il colore sul viso di Alexander, e ora lui sembra divertito.
"Ho ancora le chiavi di questa casa, sai? Ciao, pà, come stai? Ooh, ciao figlio, che bello rivederti, mi fa così piacere..."
Il suo sproloquio così familiare strappa un'espressione esasperata ad Alexander, e per un attimo è tutto così normale da essere doloroso.
"Avresti dovuto avvisarci."
Il sorriso di Brendan si fa contrito al tono del padre, e lui si stringe nelle spalle.
"Sorpresa."
Per poco Alex non lo rimprovera, per poco non lo tratta come il ragazzino che un po' è sempre stato...ma non ci riesce e, con sua sorpresa, si ritrova senza parole.
C'è qualcosa di strano nel suo secondo figlio, qualcosa che non riesce a decifrare.
Non è nemmeno passato un anno da quando si è trasferito a Philadelphia, ma, per qualche motivo, sembrano eoni.
Brendan è stanco e si è lasciato un po' crescere la barba, un'ombra appena. Deve essere dimagrito un po', e questo lo rende ancora più allampanato del solito. Il suo gusto nel vestire non è cambiato, camicie strane e colori stridenti, e sopra indossa una giacca nera. Una giacca da motociclista.
In mano ha anche un casco, un orrore pieno di adesivi colorati, ma non è questo che lo rende tanto diverso. Sembra quasi un estraneo.
Alex non riesce a definire cosa ci sia di anomalo, e si ritrova a prendere tempo.
"Sono le quattro del mattino, Brendan...ti rendi conto?"
Il telepate ha il buonsenso di arrossire.
"Ho un po' improvvisato. Ho finito tardi a lavoro, poi me la sono presa comoda sull'Interstate. Non pensavo di svegliarvi, avrei dormito sul divano..."
"Come sei arrivato?"
Anche suo figlio lo sta scrutando e, sotto il ghigno onnipresente e fastidioso, sembra provare la sua stessa attenzione tesa.
"La mia moto, no?" E mugugna, alzando gli occhi al cielo allo sguardo stupito del medico.
"Giusto. Sì, ho una moto. E no, non potevo prendere l'aereo. La corriera è fuori questione, scordatelo. Dai pà, evita quella faccia... sono solo tre ore di viaggio, mica mi sono trasferito in Alaska!"
L'esasperazione ironica nella voce del giovane gli fa venire voglia di prenderlo per le orecchie, ma quando Alexander si muove il corpo agisce da solo, come se avesse una propria volontà.
Le braccia stringono il telepate in un abbraccio caloroso, che lui ricambia senza esitare.
"Non sparire mai più."
Brendan si becca il successivo schiaffetto sulla nuca di buon grado, senza smettere di ghignare.
Anche questo è cambiato. L'ultima volta che era stato lì sembrava un galeotto, tutto occhiate sfuggenti, smorfie e mezzi sorrisi ansiosi celati sotto le solite chiacchiere irritanti.
E gli abbracci...dopo quell'incidente dei suoi sedici anni non si era mai più fidato abbastanza della sua stessa famiglia da accettare un abbraccio senza cercare di allontanarsi subito dopo.
Era stato così per anni.
"Va bene, un pochino me lo merito. Ma sono stato incasinato da morire, nemmeno te lo puoi immaginare quello che succede giù nella vecchia Philly..."
Alexander scruta il figlio, con un rigurgito di preoccupazione. Lui ricambia lo sguardo, e stavolta è il dottore il primo ad abbassarlo.
"Teniamo d'occhio le notizie: lo so quello che sta succedendo, Brendan. E ci preoccupiamo."
Il telepate si limita ad annuire, facendosi di colpo più serio, ma non dice niente per il momento, limitandosi a prendere atto della cosa, con fare un po' vergognoso.
"Scusa. Mi faccio sentire più spesso, te lo prometto."
Poi allunga il collo, guardando dietro le spalle di Alex.
"Mà? Dov'è? Sta bene?"
Il dottore ride sotto i baffi, annuendo.
"Te la vado a chiamare. Aspetta solo che ti veda..."
L'occhiata spaventata del figlio lo fa ridacchiare, mentre lui sale le scale, ancora distratto.
Saranno pure cambiate tante cose, ma il sacro terrore della mamma è ben impresso nei geni di tutta la famiglia Scott.
Ma cosa c'è di diverso in Brendan? Perché ha l'impressione di parlare con lui, ma allo stesso tempo di trovarsi davanti un perfetto sconosciuto?
Forse il modo in cui sostiene lo sguardo.
Ecco, forse è proprio questo: Brendan sembra sicuro di sé.
Si muove, lo guarda e si rivolge a lui come ad un pari, con l'aria decisa di ha capito quale sia la strada da percorrere. Non è più un ragazzino vergognoso, smarrito in un mondo che non capisce. No, non può nemmeno chiamarlo ragazzino, non più.
Mary è veloce a svegliarsi, una caratteristica quasi innaturale che nessuno dei suoi figli ha ereditato.
Da saltare fuori dal letto a prendere letteralmente per le orecchie suo figlio, parecchio più alto di lei, strillandogli una sfilza di rimproveri che sembra infinita, è un attimo.
"Cosa ci fai qui? Ah, ti limiti a mandarci messaggi di tanto in tanto e ora compari all'improvviso, senza dire niente? Non è modo di fare, ti rendi conto? Potrei cacciarti di casa! E poi...arrivare con una moto! Una moto, capisci? Che ti passa per la testa? Sono le quattro del mattino, brutto irresponsabile, chi ti ha insegnato a comportarti in questo modo? Io no di sicuro! Ti sei bevuto il cervello? Tuo padre poteva farti male! Poteva venirgli un infarto! Potevamo avere un cane! Poteva morderti! Potevamo aver messo un allarme! Finivi in carcere!"
Brendan subisce in silenzio la sequela crescente di timori, ma niente, non riesce a smettere quel sorriso impudente che fin da bambino gli costava continue punizioni.
"E' bello vederti in forma, mà."
Si limita finalmente a dire, approfittando di un momento in cui la madre si è fermata per prendere fiato.
Mary lo guarda a bocca spalancata come un pesce senz'acqua, e per un attimo sembra quasi voglia rifilargli un possente ceffone.
L'espressione di Brendan si fa a dir poco scioccata quando invece anche lei lo abbraccia con una forza tale da fargli quasi mancare il fiato, guardandolo poi con gli occhi umidi di chi sta soffocando le lacrime.
"Cretino che non sei altro. Vieni, ti preparo la colazione."
Ormai è quasi l'alba, ma casa Scott è in movimento già da un po': nessuno pensa più a dormire.
"Quindi sei un professore, ora?"
Brendan arrossisce quando nota gli sguardi increduli di entrambi i genitori, e fa in fretta a mandare giù il pancake che sta mangiando.
Ha spiegato loro la situazione in poche semplici parole, ma a quanto pare la confusione sembra aumentata.
"Un insegnante, piuttosto, non usiamo parole grosse. Mi occupo più che altro di dare una mano....a persone simili a me. Che, mi ci vedete a insegnare storia?"
Lui ridacchia, ma non può fare a meno di notare come l'incertezza di Alexander e Mary non sia diminuita nemmeno di un po'.
"Ma...è pericoloso! Dopo tutto quello che sta succedendo alla YGS di Philadelphia... dopo la votazione...perchè vai in cerca di guai? Non ti è bastato..." Alexander sembra rendersi conto di aver detto una parola di troppo, e deglutisce a fatica.
"No. Quello che mi è successo è bastato ed avanzato per una vita intera, ma non si tratta più di andare in cerca di guai."
Il sorriso del telepate si fa un po' storto, e per qualche attimo la sua mente vaga.
Vaga fino a ricordare la furia di uno scorpione gigantesco spuntato da una voragine nell'asfalto, giri di notte per stradine sconosciute con il vuoto in testa, un'esplosione nei pressi di un locale e il suono secco di ossa che si spezzano. Delle sue ossa.
Vaga verso ricordi di un Natale troppo recente passato ad osservare il fondo di un bicchiere, quando solo l'intervento di un volto davvero amico gli aveva impedito di trovare un punto abbastanza alto da cui prendere il volo una volta e per tutte.
Vaga e ricorda di risoluzioni tentennanti e di chiacchierate notturne con un uomo pallido come uno spettro, e della promessa di ricambiare quello che gli è stato dato. Vaga fino a ricordare di tutte le volte in cui ha stretto i denti e ha ricominciato a lottare.
Ricorda riunioni ed allenamenti, ricorda proteste e persone, vive e morte, i cui volti può rievocare anche ad occhi aperti.
"E' pericoloso anche se non facessi quello che faccio." Continua deciso, stupendosi lui stesso della calma con cui affronta l'argomento.
"Siamo arrivati ad un punto in cui possiamo stare a guardare o fare qualcosa per cambiare questo schifo, e io non intendo stare fermo un attimo più del necessario. Ho imparato a gestire quello che sono, ho imparato ad usare le mie capacità e non è una cosa che mi fa paura, non più.”
Un sospiro, e il telepate continua, quasi stancamente.
“Se c'è una cosa che posso fare è usarlo come si deve, per quanto posso. Per aiutare tutti quanti, superumani o meno."
Un lungo silenzio accoglie queste ultime parole, ma Brendan scopre che non è più difficile alzare lo sguardo verso i suoi genitori e sostenerlo.
“Credete non abbia pensato alle conseguenze? A quello che potrebbe o non potrebbe capitare? Non è sempre facile, ma... È da quando avevo sedici anni che fuggo come un deficiente. Sono stato un idiota anche con voi, e non sapete quanto mi dispiace, ma...non posso più...”
“Hai ragione tu. Fanculo alle conseguenze.”
La voce che, con sorpresa di tutti, lo interrompe è quella di sua madre. Alexander sembra ancora poco convinto, ma Mary trasuda orgoglio da tutti i pori, e sta sorridendo come non l'aveva mai vista fare prima. Si precipita ad abbracciarlo per l'ennesima volta, con tanta veemenza che per poco il giovane non cade dalla sedia.
"Lo sapevo che saresti diventato un insegnante come me!"
"Ma mamma!"
mercoledì 27 luglio 2016
And his heart grew three sizes that day.
Philadelphia, 16/07/2024 ore 19.20
Brendan scopre di non avere abbastanza forza per quella videochiamata. Il cuore gli sta battendo molto più veloce di quanto dovrebbe, e non riesce a rispondere, reso goffo dal tutore che gli stringe il braccio destro.
Prof gli sta dormendo sulle gambe: il suono delle fusa di quel gatto è sufficiente per tenerlo ancorato lì e dargli il coraggio che serve per toccare quell'innocuo tastino verde sullo schermo.
"Ehi. Guarda un po' chi si vede..."
Cerca di dipingersi in viso il sorriso più smagliante del suo repertorio, ma lo sguardo di Hector è troppo sospettoso.
"Ma dormi?"
La prima domanda interdetta del fratello minore lo fa scoppiare in una risata sincera, così chiassosa che il gatto scappa via, spaventato, e va a rifugiarsi sotto il vecchio divano.
La cosa lo fa ridere ancora di più, sotto lo sguardo perplesso di quel ragazzo dai cortissimi capelli rossi.
Può vedere la stanza del college dietro le sue spalle, un paio di poster, un letto sfatto e una pila di libri.
"Si chiama lavoro, piattola. Forse un giorno capirai anche tu, quando sarai un bimbo grande."
L'occhiataccia di Hector è acuta, così simile a quella di Mary e così comica al tempo stesso che tutta l'ansia, tutta la preoccupazione scompaiono.
"Sul serio, ho visto gente conciata meglio alla fine di una sessione di esami brutti. E poi che hai fatto al braccio?"
Gli vengono in mente lampi improvvisi, gli occhi spietati di un ragazzo troppo simile ad una bestiolina feroce braccata, qualcosa di invisibile che lo investe e l'urto freddo del lampione sul fianco.
Si sorprende anche lui di quanto la sua scusa riesca a suonare naturale.
"Oh, sai com'è, sono caduto. Qui piove un sacco, si scivola che è un piacere!".
Hector non pare molto rassicurato, e il silenzio che piomba all'improvviso fa passare a telepate la voglia di mantenere quel sorriso che è sempre più forzato man mano che il tempo passa.
"Allora? Brendan, cos'è questa storia della Young Gifted School di cui mi hai parlato via messaggio? Non stavi lavorando come tassista?"
"Ho smesso di fare il tassista da qualche mese, ormai."
Quelle parolo gli escono pesanti come piombo. Non vuole sentirsi in colpa, ma è più forte di lui.
Di tutta la sua famiglia, forse Hector è l'unico a non meritarsi tutti quei segreti, e la paura di incontrare il suo sguardo, la paura di scoprire cosa c'è dentro, lo costringe a tenere il suo verso il pavimento.
"Ora capisco perchè non dormi. Da quanto?"
Brendan comincia ad avere improvvisamente la gola molto secca, e deve schiarirsi la voce più volte prima di continuare a parlare. Mettere in parole quello che pensa si rivela difficile: nella sua testa è tutto alla rinfusa e i pensieri gli scorrono troppo veloci per afferrarli.
"...Dall'inizio del nuovo anno. Sono...ci stavo pensando da Natale. Non ce la facevo più da solo, e poi...sono rimasto a dare una mano."
Un'altra pausa, e una ventata di orgoglio, calda come lava, scaccia via quel perenne grumo di angoscia che lo tradisce ogni santa volta che deve parlare con qualcuno della sua famiglia.
"Non ce la facevo a vedere...cosa succede. Ho anche io una responsabilità. Non me ne potevo stare fermo e buono. Non posso starmene con le mani in mano, Hector. Voglio...creare qualcosa. Costruire. E...io ci credo davvero in quello che sto facendo. In quello che la Scuola fa. A dispetto di...tutto."
Rialza la testa quasi di scatto, e guarda il fratello minore quasi con aria di sfida.
"E qua io resterò, comunque vadano le cose."
La cosa più assurda dell'atteggiamento di Hector è che sta sorridendo. No, meglio, sta ghignando.
"Io che studio come un matto chiuso in questa topaia e tu che vieni bello e tranquillo a dirmi che sei diventato un insegnante." Un sospiro, e il ragazzo scuote la testa, compassato.
"Tu...professore. Proprio tu. Tanto vale che mi diano già la carica di Presidente degli Stati Uniti."
"Grazie. Posso sempre contare su di te quando voglio ridimensionarmi."
Brendan sbuffa, alzando gli occhi al cielo, sarcastico, senza nemmeno sforzarsi per nascondere il sollievo evidente, che lo invade e lo fa sentire più leggero.
"E poi studio anche io, che ti credi. Non è il tipo di studio che ti immagini, ma..."
Hector lo interrompe con entusiasmo incongruo e quasi infantile.
"Ora riesci a controllare la gente entrandogli in testa? Potresti farmi ballare che so, il tip tap? Puoi farmi vedere che so, una bottiglia di birra dove non c'è? Puoi..."
Il telepate lo vede infervorarsi, le guance che gli diventano rosse, e istintivamente porta le mani avanti a sè, per proteggersi, ridendo.
"Calma, stop, fermati! Certe volte mi sembra che tu abbia ancora undici anni. Comunque no, la telepatia non funziona tutta così e non per me. Ma..."
Lo sguardo si fa improvvisamente furtivo, e cerca di guardare nella stanza del fratello, sospettoso.
"Siamo soli?"
Il fratello annuisce con aria di aspettativa: è seduto a terra, a gambe incrociate, ma per un attimo gli sembra davvero un bambino che aspetta la storia della buonanotte.
Brendan si guarda intorno, e decide di alzarsi per prendere il suo zaino. Dentro ci sono delle monete cadute, lo sa e lo può percepire. Sentire il metallo intorno a lui è ancora una sensazione strana, lo mette parecchio a disagio, come se gli prudesse la pelle. Ma si sta abituando.
Torna con un paio di quelle monete strette nel pugno sinistro. Hector sembra parecchio incuriosito, ma la curiosità si trasforma in vero e proprio stupore quando quegli innocui pezzetti di metallo cominciano a levitare pigramente a circa cinque centimetri dal palmo aperto di Brendan. E' troppo semplice farlo, basta un pensiero.
"No, dai! Non ci credo!"
Il telepate lascia ricadere le monete, e ridacchia stancamente.
"La prossima volta mi faccio pagare per lo spettacolo. Sono cinquanta dollari, prego."
Una risata, ed Hector scuote la testa.
"Diamine, quasi non ci credo che puoi fare una cosa del genere. Quindi sul serio insegni ai ragazzini? Nostra madre sarà così fiera di te..."
Brendan annuisce, ridendo anche lui: ricorda bene la sottile, bonaria delusione di Mary nel vedere i suoi figli intraprendere carriere così diverse dalla sua.
"Non ne sarei così sicuro. Per come stanno andando le cose mi sembra strano non sia già piombata in casa mia come un falco."
Il giovane al di là del telefono arriccia il naso, e il suo sorriso entusiasta scompare pian piano.
"Ho sentito alla tv che cosa stanno combinando a Philadelphia. Nemmeno qui la situazione è tranquilla...ma...non è una città così grande. Al campus stanno girando ogni genere di storie "
Hector si allunga verso il telefono, indicandolo con un fare serio, troppo per un ragazzo di quasi ventidue anni.
"Prometti che fai il bravo, mh? Sei un attiraguai professionista, ma non scherzare, specialmente con questa legge che gira al Senato. Non puoi sapere quello che succederà a quella scuola. Mamma e papà si stanno preoccupando a morte per te."
"Non posso dirti niente, tranne che...ci lavoriamo. E no, non posso tirarmi indietro nè ho intenzione di farlo.".
E' il turno di Brendan di fare una smorfia. Quel forte senso di orgoglio bruciante è tornato, così estraneo e familiare al tempo stesso.
"E non posso prometterti niente, se non che quando ho un buco libero li vado a trovare."
La pausa che fa dopo gli pesa molto più del previsto, e quando torna a parlare sente la gola di nuovo secca.
"Constantine? Dovevamo vederci a Newark, ma...non risponde ai messaggi. L'ho anche chiamato, ma rifiuta...".
Un'ombra inquieta passa sul viso di Hector, e stavolta sì che c'è da preoccuparsi. Sono secoli che non lo vede così nervoso: nemmeno durante le ultime feste natalizie, quando tutti avevano passato il tempo a litigare come cani, aveva visto quell'espressione.
"Non lo sai." Quella non è una domanda, e gli fa sprofondare il cuore qualche centimetro sottoterra. "Constantine si è licenziato. Lui e Louise stanno compilando le carte per il divorzio. Non lo so che sta succedendo di preciso, ma...dovresti parlare soprattutto con lui."
Brendan scopre in quel momento che si ci può sentire preoccupati per una persona e anche, allo stesso tempo, sorpresi di esserlo.
"Lo faccio solo per farti contento." Mugugna, lasciandosi scappare un mezzo sorriso quando l'espressione del fratello si rischiara.
Il suono di una sveglia li fa sobbalzare entrambi, e il telepate si lascia scappare l'ennesimo dei sospiri esausti, girandosi per spegnerla.
"Devo tornare a lavoro, piattola. Ci si sente, d'accordo? Ora ho parecchio da fare, cerco di fare un salto ad Albany quando posso, che magari parliamo di persona e ti racconto meglio."
Il fratello minore fa un occhiolino, annuendo. "Non ti preoccupare. Lo sappiamo che sei un uomo affermato ed occupato, ormai."
Brendan ridacchia, e fa per interrompere la videochiamata.
"E...Brendan?" Si interrompe, incuriosito, quando vede il ragazzo ghignare di nuovo.
"Ce n'è voluto di tempo, eh? Sei proprio una testa di cazzo."
E' quel buonumore a scacciare via ogni ombra dalla conversazione ormai conclusa, e il telepate si ritrova a rispondere con naturalezza, portandosi una mano al cuore, fintamente scandalizzato, ma annuendo nel frattempo.
Sì. Ce n'è voluto di tempo.
Brendan scopre di non avere abbastanza forza per quella videochiamata. Il cuore gli sta battendo molto più veloce di quanto dovrebbe, e non riesce a rispondere, reso goffo dal tutore che gli stringe il braccio destro.
Prof gli sta dormendo sulle gambe: il suono delle fusa di quel gatto è sufficiente per tenerlo ancorato lì e dargli il coraggio che serve per toccare quell'innocuo tastino verde sullo schermo.
"Ehi. Guarda un po' chi si vede..."
Cerca di dipingersi in viso il sorriso più smagliante del suo repertorio, ma lo sguardo di Hector è troppo sospettoso.
"Ma dormi?"
La prima domanda interdetta del fratello minore lo fa scoppiare in una risata sincera, così chiassosa che il gatto scappa via, spaventato, e va a rifugiarsi sotto il vecchio divano.
La cosa lo fa ridere ancora di più, sotto lo sguardo perplesso di quel ragazzo dai cortissimi capelli rossi.
Può vedere la stanza del college dietro le sue spalle, un paio di poster, un letto sfatto e una pila di libri.
"Si chiama lavoro, piattola. Forse un giorno capirai anche tu, quando sarai un bimbo grande."
L'occhiataccia di Hector è acuta, così simile a quella di Mary e così comica al tempo stesso che tutta l'ansia, tutta la preoccupazione scompaiono.
"Sul serio, ho visto gente conciata meglio alla fine di una sessione di esami brutti. E poi che hai fatto al braccio?"
Gli vengono in mente lampi improvvisi, gli occhi spietati di un ragazzo troppo simile ad una bestiolina feroce braccata, qualcosa di invisibile che lo investe e l'urto freddo del lampione sul fianco.
Si sorprende anche lui di quanto la sua scusa riesca a suonare naturale.
"Oh, sai com'è, sono caduto. Qui piove un sacco, si scivola che è un piacere!".
Hector non pare molto rassicurato, e il silenzio che piomba all'improvviso fa passare a telepate la voglia di mantenere quel sorriso che è sempre più forzato man mano che il tempo passa.
"Allora? Brendan, cos'è questa storia della Young Gifted School di cui mi hai parlato via messaggio? Non stavi lavorando come tassista?"
"Ho smesso di fare il tassista da qualche mese, ormai."
Quelle parolo gli escono pesanti come piombo. Non vuole sentirsi in colpa, ma è più forte di lui.
Di tutta la sua famiglia, forse Hector è l'unico a non meritarsi tutti quei segreti, e la paura di incontrare il suo sguardo, la paura di scoprire cosa c'è dentro, lo costringe a tenere il suo verso il pavimento.
"Ora capisco perchè non dormi. Da quanto?"
Brendan comincia ad avere improvvisamente la gola molto secca, e deve schiarirsi la voce più volte prima di continuare a parlare. Mettere in parole quello che pensa si rivela difficile: nella sua testa è tutto alla rinfusa e i pensieri gli scorrono troppo veloci per afferrarli.
"...Dall'inizio del nuovo anno. Sono...ci stavo pensando da Natale. Non ce la facevo più da solo, e poi...sono rimasto a dare una mano."
Un'altra pausa, e una ventata di orgoglio, calda come lava, scaccia via quel perenne grumo di angoscia che lo tradisce ogni santa volta che deve parlare con qualcuno della sua famiglia.
"Non ce la facevo a vedere...cosa succede. Ho anche io una responsabilità. Non me ne potevo stare fermo e buono. Non posso starmene con le mani in mano, Hector. Voglio...creare qualcosa. Costruire. E...io ci credo davvero in quello che sto facendo. In quello che la Scuola fa. A dispetto di...tutto."
Rialza la testa quasi di scatto, e guarda il fratello minore quasi con aria di sfida.
"E qua io resterò, comunque vadano le cose."
La cosa più assurda dell'atteggiamento di Hector è che sta sorridendo. No, meglio, sta ghignando.
"Io che studio come un matto chiuso in questa topaia e tu che vieni bello e tranquillo a dirmi che sei diventato un insegnante." Un sospiro, e il ragazzo scuote la testa, compassato.
"Tu...professore. Proprio tu. Tanto vale che mi diano già la carica di Presidente degli Stati Uniti."
"Grazie. Posso sempre contare su di te quando voglio ridimensionarmi."
Brendan sbuffa, alzando gli occhi al cielo, sarcastico, senza nemmeno sforzarsi per nascondere il sollievo evidente, che lo invade e lo fa sentire più leggero.
"E poi studio anche io, che ti credi. Non è il tipo di studio che ti immagini, ma..."
Hector lo interrompe con entusiasmo incongruo e quasi infantile.
"Ora riesci a controllare la gente entrandogli in testa? Potresti farmi ballare che so, il tip tap? Puoi farmi vedere che so, una bottiglia di birra dove non c'è? Puoi..."
Il telepate lo vede infervorarsi, le guance che gli diventano rosse, e istintivamente porta le mani avanti a sè, per proteggersi, ridendo.
"Calma, stop, fermati! Certe volte mi sembra che tu abbia ancora undici anni. Comunque no, la telepatia non funziona tutta così e non per me. Ma..."
Lo sguardo si fa improvvisamente furtivo, e cerca di guardare nella stanza del fratello, sospettoso.
"Siamo soli?"
Il fratello annuisce con aria di aspettativa: è seduto a terra, a gambe incrociate, ma per un attimo gli sembra davvero un bambino che aspetta la storia della buonanotte.
Brendan si guarda intorno, e decide di alzarsi per prendere il suo zaino. Dentro ci sono delle monete cadute, lo sa e lo può percepire. Sentire il metallo intorno a lui è ancora una sensazione strana, lo mette parecchio a disagio, come se gli prudesse la pelle. Ma si sta abituando.
Torna con un paio di quelle monete strette nel pugno sinistro. Hector sembra parecchio incuriosito, ma la curiosità si trasforma in vero e proprio stupore quando quegli innocui pezzetti di metallo cominciano a levitare pigramente a circa cinque centimetri dal palmo aperto di Brendan. E' troppo semplice farlo, basta un pensiero.
"No, dai! Non ci credo!"
Il telepate lascia ricadere le monete, e ridacchia stancamente.
"La prossima volta mi faccio pagare per lo spettacolo. Sono cinquanta dollari, prego."
Una risata, ed Hector scuote la testa.
"Diamine, quasi non ci credo che puoi fare una cosa del genere. Quindi sul serio insegni ai ragazzini? Nostra madre sarà così fiera di te..."
Brendan annuisce, ridendo anche lui: ricorda bene la sottile, bonaria delusione di Mary nel vedere i suoi figli intraprendere carriere così diverse dalla sua.
"Non ne sarei così sicuro. Per come stanno andando le cose mi sembra strano non sia già piombata in casa mia come un falco."
Il giovane al di là del telefono arriccia il naso, e il suo sorriso entusiasta scompare pian piano.
"Ho sentito alla tv che cosa stanno combinando a Philadelphia. Nemmeno qui la situazione è tranquilla...ma...non è una città così grande. Al campus stanno girando ogni genere di storie "
Hector si allunga verso il telefono, indicandolo con un fare serio, troppo per un ragazzo di quasi ventidue anni.
"Prometti che fai il bravo, mh? Sei un attiraguai professionista, ma non scherzare, specialmente con questa legge che gira al Senato. Non puoi sapere quello che succederà a quella scuola. Mamma e papà si stanno preoccupando a morte per te."
"Non posso dirti niente, tranne che...ci lavoriamo. E no, non posso tirarmi indietro nè ho intenzione di farlo.".
E' il turno di Brendan di fare una smorfia. Quel forte senso di orgoglio bruciante è tornato, così estraneo e familiare al tempo stesso.
"E non posso prometterti niente, se non che quando ho un buco libero li vado a trovare."
La pausa che fa dopo gli pesa molto più del previsto, e quando torna a parlare sente la gola di nuovo secca.
"Constantine? Dovevamo vederci a Newark, ma...non risponde ai messaggi. L'ho anche chiamato, ma rifiuta...".
Un'ombra inquieta passa sul viso di Hector, e stavolta sì che c'è da preoccuparsi. Sono secoli che non lo vede così nervoso: nemmeno durante le ultime feste natalizie, quando tutti avevano passato il tempo a litigare come cani, aveva visto quell'espressione.
"Non lo sai." Quella non è una domanda, e gli fa sprofondare il cuore qualche centimetro sottoterra. "Constantine si è licenziato. Lui e Louise stanno compilando le carte per il divorzio. Non lo so che sta succedendo di preciso, ma...dovresti parlare soprattutto con lui."
Brendan scopre in quel momento che si ci può sentire preoccupati per una persona e anche, allo stesso tempo, sorpresi di esserlo.
"Lo faccio solo per farti contento." Mugugna, lasciandosi scappare un mezzo sorriso quando l'espressione del fratello si rischiara.
Il suono di una sveglia li fa sobbalzare entrambi, e il telepate si lascia scappare l'ennesimo dei sospiri esausti, girandosi per spegnerla.
"Devo tornare a lavoro, piattola. Ci si sente, d'accordo? Ora ho parecchio da fare, cerco di fare un salto ad Albany quando posso, che magari parliamo di persona e ti racconto meglio."
Il fratello minore fa un occhiolino, annuendo. "Non ti preoccupare. Lo sappiamo che sei un uomo affermato ed occupato, ormai."
Brendan ridacchia, e fa per interrompere la videochiamata.
"E...Brendan?" Si interrompe, incuriosito, quando vede il ragazzo ghignare di nuovo.
"Ce n'è voluto di tempo, eh? Sei proprio una testa di cazzo."
E' quel buonumore a scacciare via ogni ombra dalla conversazione ormai conclusa, e il telepate si ritrova a rispondere con naturalezza, portandosi una mano al cuore, fintamente scandalizzato, ma annuendo nel frattempo.
Sì. Ce n'è voluto di tempo.
venerdì 22 aprile 2016
Birthday wishes
Me ne vado, lascio Philadelphia.
Marshall ha intenzione di fare di me una donna onesta. Ma qui o altrove farò il mio dovere sempre.
Sii forte, allenati, diventa più forte e non avere paura di te stesso.
Pearl
Brendan guarda incredulo quel messaggio, arrivato da un numero che non riesce più a raggiungere.
Se non fosse bloccato da un paio di ingessature e un'ingombrante sedia a rotelle prenderebbe la moto, andrebbe alla rincorsa, farebbe...qualcosa, qualunque cosa.
Ma quella terrificante inerzia lo stordisce e lo instupidisce, tanto che alla fine si ritrova a scorrere la memoria dei messaggi, senza sapere che fare.
Pearl...gentile Pearl, tormentata da sogni di fiamme. Kit, le cui ossa bruciavano all'inferno da molto più tempo di quanto potesse immaginare.
Pearl e Talbot, il rimpianto incatenato al mondo terreno.
Brendan sospira, quando per la stessa inerzia torna a leggere il vecchio scambio di messaggi con Hector.
Hector, studioso e dal cuore grande, che si preoccupa per entrambi i fratelli maggiori. Hector che non ha mai odiato nessuno.
C'è anche un altro numero a cui sta tornando sempre più spesso, durante le notti in cui le gambe rotte non lo fanno dormire, durante i giorni che passano sempre uguali e che lo fanno sentire una rondine con le ali spezzate.
E quando apre la schermata di invio messaggio sente un paio di mani invisibili stringergli il collo, un nodo scorsoio fatto di rimpianti.
Ma io non posso avere rimpianti.
Ulteriore scambio di messaggi in data 23 aprile, tarda nottata. Il numero non è segnato in rubrica.
Marshall ha intenzione di fare di me una donna onesta. Ma qui o altrove farò il mio dovere sempre.
Sii forte, allenati, diventa più forte e non avere paura di te stesso.
Pearl
Brendan guarda incredulo quel messaggio, arrivato da un numero che non riesce più a raggiungere.
Se non fosse bloccato da un paio di ingessature e un'ingombrante sedia a rotelle prenderebbe la moto, andrebbe alla rincorsa, farebbe...qualcosa, qualunque cosa.
Ma quella terrificante inerzia lo stordisce e lo instupidisce, tanto che alla fine si ritrova a scorrere la memoria dei messaggi, senza sapere che fare.
Pearl...gentile Pearl, tormentata da sogni di fiamme. Kit, le cui ossa bruciavano all'inferno da molto più tempo di quanto potesse immaginare.
Pearl e Talbot, il rimpianto incatenato al mondo terreno.
Brendan sospira, quando per la stessa inerzia torna a leggere il vecchio scambio di messaggi con Hector.
Hector, studioso e dal cuore grande, che si preoccupa per entrambi i fratelli maggiori. Hector che non ha mai odiato nessuno.
C'è anche un altro numero a cui sta tornando sempre più spesso, durante le notti in cui le gambe rotte non lo fanno dormire, durante i giorni che passano sempre uguali e che lo fanno sentire una rondine con le ali spezzate.
E quando apre la schermata di invio messaggio sente un paio di mani invisibili stringergli il collo, un nodo scorsoio fatto di rimpianti.
Ma io non posso avere rimpianti.
Ulteriore scambio di messaggi in data 23 aprile, tarda nottata. Il numero non è segnato in rubrica.
So già che mi pentirò di averlo fatto.
Ringrazia tuo fratello e un paio di amici che mi hanno fatto capire che non vale la pena di odiare così tanto.
Ad odiare si diventa ossa bruciate...ed è un tantino troppo presto per questo.
A questo punto non mi resta altro da fare che parlare con te.
Ora però fammi capire. Cosa vuoi? Porca miseria, mi è venuto un infarto quando ti ho sentito.
[Grazie, Brendan. Lo so che ti costa molto.
Non potevo mandarti un messaggio o una mail.
Avresti cancellato tutto e mi avresti bloccato, ti conosco.
Non potevo mandarti un messaggio o una mail.
Avresti cancellato tutto e mi avresti bloccato, ti conosco.
Non posso parlartene in questo modo, ma sappi che mi dispiace.
Mi dispiace per quello che ti ho fatto, non te lo meritavi.
Forse è troppo tardi per scusarmi, sono passati tanti anni...]
Hector aveva ragione, qualcosa non va.
Per caso ti hanno dato qualche botta in testa? No, altrimenti non me lo spiego. Sicuro di essere ancora Constantine, lo stronzone che conosco?
Da quando sei andato al college hai cominciato a simpatizzare e militare in gruppi anti superumani, hai sposato una militante attiva, hai fatto finta per anni di non essere il fratello di un mutante e ammetto che hai lavorato parecchio bene per cercare di farmi sentire come tu credevi che fossi.
Ora che cosa è cambiato?
[E' cambiato che mi sono accorto di aver fatto una cazzata.
Ho...in questi mesi stanno cambiando parecchie cose.]
Beh, complimenti per essertene accorto, meglio tardi che mai: ti darei un biscottino.
Questo non toglie che meriteresti un pugno in faccia.
[Temo che non possa permettertelo.
Non sei l'unico che tiene al suo visino come una femminuccia.]
Non sei l'unico che tiene al suo visino come una femminuccia.]
Ehi! Stai attento a quello che dici, non ti ho ancora perdonato.
[Lo so.
Tra qualche giorno sarò a Newark per un convegno, comunque. Volevo dirti questo.
Non è proprio vicinissimo a dove vivi tu ora, ma sempre meglio di Albany.
Puoi raggiungermi?
Ci sono troppe cose di cui parlare, e non riesco nè posso dirtele tutte via messaggio.
Ci sono troppe cose di cui parlare, e non riesco nè posso dirtele tutte via messaggio.
Ti prego.]
Sei sempre l'uomo delle sorpresine, eh? Porca miseria.
Vedrò cosa posso fare.
Sono stati giorni strani e pieni di imprevisti.
Ho preso un bel po' di ferie da lavoro, ultimamente, e non so se posso permettermelo ancora.
[Ti prego. E' importante.
Ti pago io il viaggio, me la vedo io con il tuo datore di lavoro, ma...ti prego.
Ho bisogno di parlare con te.]
Ho bisogno di parlare con te.]
Okay, ora sei tu che mi stai facendo preoccupare.
Va bene. Cercherò un volo quanto prima.
[Grazie fratellino. Sei il migliore.
Non sarebbe divertente se ci vedessimo per un po'?
Parlare, fare i cretini come quando eravamo ragazzi...mi mancano queste cose.
Parlare, fare i cretini come quando eravamo ragazzi...mi mancano queste cose.
Scommetto che sei ancora una schiappa a basket.]
Senti chi parla.
E...grazie. Non credevo di poter parlare ancora con te in questo modo.
[Non ringraziare me.
Ma ne parleremo poi, va bene?
Fammi sapere quando arrivi e dove alloggi, ci organizzeremo meglio.
Fammi sapere quando arrivi e dove alloggi, ci organizzeremo meglio.
Non fare stronzate e non raccontarmi cazzate. Vieni.]
Gli imperativi li usi con la sorella che non hai, scemo.
Ci vediamo presto.
[E a proposito, fratellino...buon compleanno.]
martedì 19 aprile 2016
Blood is thicker than water
Salvato nella memoria del telefono di Brendan c'è uno scambio di messaggi, data 20 aprile, tarda nottata.
L'altro interlocutore è segnato in rubrica come "Piattola".
[Oi, Brendan.
Constantine mi ha riferito che avete discusso.
...Com'è andata?]
Ma guarda un po' chi si fa sentire.
Si è anche degnato di dirtelo!
Si è anche degnato di dirtelo!
Porca puttana, Hector, ma è possibile che non riesci a fare più attenzione al tuo cellulare?
Per una santa volta, togli quel naso dai tuoi stramaledettissimi libri!
[Presumo non sia andata bene, allora].
Presumi???
Se Constantine è stato così gentile da dirti che si è fregato il mio numero, fatti raccontare da lui.
.
.
[Una volta eri più simpatico.
...In realtà mi ha detto qualcosa.
Mi ha detto che lo hai mandato a fanculo strillando nel suo orecchio alle due del mattino.
Brendan, si sta seriamente preoccupando per te. Dovresti farlo parlare, prima o poi.
Senza urlare, magari.]
Senza urlare, magari.]
No, fammi capire, ora ti ci metti anche tu con questa storia?
Carino preoccuparsi per me dopo così tanto tempo che ha fatto finta di non avere un fratello.
Non ho voglia di discutere di questo, non è il momento. Basta.
Non ho voglia di discutere di questo, non è il momento. Basta.
[E dai! La vuoi piantare?
E' da quando te ne sei andato a vivere a Philadelphia che Constantine sta cercando di parlarti, ma a Natale sei scappato e non sei più venuto...]
A Natale sono "scappato", vero, ma avevo un motivo.
Non sopportavo lui e quella troia sciacquata di sua moglie.
Non sopportavo lui e quella troia sciacquata di sua moglie.
Scusa se non mi sono accorto che voleva parlarmi, in mezzo agli insulti non ci avrò fatto caso.
[Tu non hai idea di quanto hanno litigato dopo che papà ti ha accompagnato all'aeroporto.
E' da un pochino che stanno discutendo più del solito.
Domenica scorsa è venuto a pranzo senza di lei...non è mai successo da quando ce l'ha presentata.]
Hector, parliamoci chiaro.
Non me ne può fregare di meno delle dinamiche coniugali di quei due scoppiati.
Lo sai per cosa simpatizza quel coglione di tuo fratello. E viene pure a dire di essere preoccupato?
[Senti, io non so che gli passa per la testa e perchè vuole parlarti.
Davvero, non mi sono mai intromesso tra voi due, però stavolta è diverso.
Constantine è diverso. C'è qualcosa di strano.
Mi chiama ad orari strani per chiacchierare, e mi ha pure detto che non sta frequentando più...le vecchie compagnie. Sai, i soliti.
Quando me l'ha detto era sbronzo marcio e non credo voglia farlo sapere, ma nemmeno il lavoro deve andare così bene, nell'ultimo periodo]
Gli farò un applauso la prossima volta che lo vedo, allora.
Magari si sta rendendo conto di che immane stronzo è, gli farebbe bene.
[Brendan, per favore. Dovreste smetterla entrambi e parlare per una buona volta.
Io non ti posso forzare, lo sai.
Prometti che ci proverai? Lo so che è un coglione, lo è sempre stato, ma fate tutti e due parte della stessa famiglia. Siamo fratelli. Siete fratelli.]
Peccato che per quasi dieci anni si sia comportato da schifo.
Un particolare che invece io non dimentico.
Non ti prometto niente, ma...ci proverò, ok?
[Bravo.
Un particolare che invece io non dimentico.
Non ti prometto niente, ma...ci proverò, ok?
[Bravo.
Inoltre, mi raccomando: qualche volta chiama anche papà o mamma, si preoccupano anche loro.]
...non sono io il fratello maggiore?
Ma torna a giocare al dottore (ha-ha)!
[Anagraficamente tu e Constantine siete i maggiori, ma temo che il ruolo di responsabile della famiglia tocchi a me.
E smettila di prendermi per il culo, idiota, o la prossima volta che ti vedo ti imbottisco di sedativo e ti mando in Africa in una cassa di banane.]
Non sai resistere al mio fascino, ammettilo.
Mi raccomando, studia e rendi papà fiero, che almeno avrà un medico in famiglia.
E partecipa a qualche festa del college, non fare il bigotto come al solito.
[E tu fai il bravo giù a Philadelphia, ti conosco abbastanza bene da sapere che ti sei fatto già conoscere da metà città, e non in senso buono.
Non ho tempo per le feste idiote.]
Non sai vivere.
[Mi piace quella che tu definisci "una rottura mortale di palle", che vuoi farci.
Ora devo andare, ho un esame a breve e devo studiare.
Mi prometti che ci pensi?]
Mi prometti che ci pensi?]
...va bene. Ci penserò.
giovedì 14 aprile 2016
It takes two to tango
Anche se le sue mani stanno diventando come gelide come blocchi di ghiaccio, e sta rimpiangendo di non aver preso i guanti, Brendan non riesce a fermarsi.
La bella moto nera romba per le vie di Philadelphia ed è ormai quasi l'alba, grigia e fredda come sempre.
Il cuore gli galoppa in petto, più veloce dei giri del motore, e nella testa è anche peggio. Non riesce a smettere di pensare.
Anzi, i pensieri gli corrono dietro come una muta di bestie selvagge e, per quanto possa andare forte, per quanto strette possano essere le curve, ha il sentore che possano arrivare a mordergli le chiappe da un momento all'altro.
Il primo istinto è quello di urlare fino a farsi dolere la gola. Tanto, chi mai l'avrebbe sentito?
Eppure non un suono gli esce dalla bocca nascosta e appena socchiusa. Sente un groppo in gola, un grumo di angoscia che non c'era da anni e non si scioglie.
Era bastato un attimo, pochi minuti appena, ed eccolo tornato. Che bell'amico fedele.
E la mente viaggia ancora, torna per l'ennesima volta a poche ora prima, quando andava tutto bene.
-----------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Quella sembra una notte tutto sommato tranquilla, il tempo indeciso e primaverile.
Le pagine del libro che sta leggendo sembrano un ammasso confuso di inchiostro.
Brendan batte le palpebre, strofinandosi gli occhi stanchi e poi il viso, guardando l'orologio digitale appeso alla parete, unica decorazione in una casa quasi spoglia.
Quasi le due del mattino...ora di andare a dormire.
Il suo piccolo appartamento è immerso in un silenzio sereno, ma ogni volta che le finestre tremano, al passaggio di un mezzo più pesante o dal motore chiassoso, il telepate sobbalza e si guarda intorno allarmato.
"Che palle."
Ha finalmente ripreso a riposare in modo più o meno regolare, senza incubi terrificanti, e le giornate stanno tornando alla regolarità: è perfino riuscito a tornare a lavoro.
Per come stanno andando le cose può anche considerarsi felice.
La suoneria del cellulare, la solita anatra starnazzante che tanto scandalizza chi gli è intorno, lo coglie di sorpresa mentre sta per alzarsi dal vecchio divano.
Brendan osserva lo schermo, che ogni tanto sfarfalla, indeciso se funzionare o meno. Il numero non gli è conosciuto, e il sorrisetto che aveva cominciato a nascere sul suo viso si dissolve.
Il telepate si affretta a rispondere, risiedendosi, improvvisamente teso.
"Chi è?"
"Non si dice nemmeno pronto? E dire che veniamo dalla stessa famiglia!".
La voce all'altro capo del telefono, specialmente la risata che viene dopo, gli fa perdere quel poco di colore che ancora rimane sulle guance e gli fa crollare un peso in gola e sulle spalle.
"Sei maleducato, fratellino."
"Constantine."
Brendan si alza dal divano con uno scatto talmente violento che le molle cigolano, e comincia a misurare il piccolo ambiente a passi larghi, parlando a brevi soffi da gatto rabbioso.
"Che cazzo vuoi da me?"
La presa sul telefono si fa così forte che perfino le nocche sbiancano.
"Quanta veemenza. Abbiamo cominciato a parlare a domande?"
Constantine ride di nuovo, e per un attimo sembra tornato il ragazzino di una volta, quello che gli ha insegnato a giocare a basket e a strimpellare la chitarra.
"Volevo solo sentirti. Non sei venuto per la caccia alle uova e non ti sei nemmeno scusato. Nonna Jenna si è arrabbiata da morire con te."
"Tu che mi vuoi sentire? Questa è nuova!"
Brendan deve mordersi la lingua e contare fino a dieci per non urlare, ma non riesce a contenere il sarcasmo. Le parole gli escono di bocca a fatica, e solo a costo di lunghi silenzi.
"Cosa ne dice la tua cara mogliettina? L'ultima volta che vi ho visti...come ha detto? Che le faceva schifo avere un mutante...no, un mostro alla stessa tavola e nella stessa famiglia. E mi pare tu fossi d'accordo, che bravo marito amorevole. Che vuoi?"
Cade un silenzio profondo, ma il telepate si rende conto di non essere capace di staccare il cellulare dall'orecchio, anche se avrebbe tanta voglia di farlo.
"...scommetto che mamma ti ha dato il mio numero." Non sembra nemmeno una domanda, ma suo fratello ride di nuovo.
"Vai subito al punto, eh? Ti ricordavo più chiacchierone. Mamma non c'entra niente col numero, anche se farà i salti di gioia se scopre che ci siamo parlati. L'ho rubato dal cellulare di Hector.".
Ammette, candido e apparentemente ancora allegro, la voce brillante, impermeabile alla rabbia che ormai sembra essersi impossessata del fratello minore.
"Ti sto chiamando dall'ufficio. Louise oggi è tornata a casa prima e io avevo...del... lavoro arretrato."
Di nuovo cala un silenzio pieno di disagio e cose non dette. Brendan continua a girare per la casa come una tigre in una gabbia troppo piccola, sforzandosi di non dare calci a niente.
"Allora? Quando cominciano gli insulti, ora che hai la fortuna di potermi raggiungere?"
La voce di Constantine si fa improvvisamente seria.
"Brendan..." Un sospiro, e l'uomo continua a fatica. Il suo buonumore apparente defluisce via, come acqua da uno scarico. "Non ho...non voglio...".
Un sospiro, e finalmente mette le parole insieme, con falsa sicurezza.
"Ho saputo di quello che sta succedendo a Philadelphia, e volevo assicurarmi che stessi bene, visto che non dai mai notizie di te. Tutto qui."
Brendan si passa una mano sul petto, lì dove è stato colpito dalla melma dello scorpione, le ustioni guarite che, sotto la maglia, hanno lasciato la pelle ancora morbida e nuova, e alcuni segni irregolari che probabilmente non se ne andranno nemmeno col tempo.
"Sto una meraviglia. Strano che cominci a preoccuparti proprio ora. Di solito fai finta di non conoscermi, quando va bene, altrimenti passiamo direttamente alle offese, eh?"
"...dobbiamo parlarne proprio ora, a telefono?" Constantine sembra smarrito, e sembra aver perso tutta la sua sicurezza, di botto.
"Certo che no. Se fosse per me non ne parleremmo proprio."
Un altro silenzio sbigottito accoglie le parole feroci del telepate, e quella dell'avvocato Scott sembra quasi una supplica.
"...e dai, fratellino...non voglio litigare. Mi faceva piacere..."
"TI FACEVA PIACERE?"
L'urlo di Brendan fa calare il silenzio totale dall'altra parte del telefono.
"Ora stammi a sentire, brutto pezzo di stronzo..." Ringhia, senza più riuscire a controllare la rabbia che sale a fiotti, come lava bollente.
"Non ho intenzione di parlare con te. Da quando mi chiami alle due di notte per chiacchierare e chiedermi come sto? Non voglio sentire niente di qualunque cazzata ti esca dalla bocca, e se provi a chiamarmi di nuovo vengo di persona a prenderti a sberle, hai capito?"
"Brendan...per favore..." La voce di Constantine è stranamente bassa, un sospiro, ma il telepate non si ferma, furioso.
"Niente per favore. Che cazzo pensavi, chiamare come se nulla fosse e aspettarti il tappetino di benvenuto? Vaffanculo. Stai lontano dalla mia vita."
Senza aspettare nient'altro, senza nemmeno ascoltare quello che suo fratello ha da dire, Brendan interrompe la telefonata, spegnendo subito dopo il cellulare, il respiro che gli esce rapido dai denti digrignati.
Lo stesso telefono viene lanciato sul divano, mentre il telepate afferra la giacca, le chiavi di casa, il casco e le chiavi della moto e apre la rumorosissima, scassata porta di casa, per poi chiuderla senza grazia, con un botto.
La bella moto nera romba per le vie di Philadelphia ed è ormai quasi l'alba, grigia e fredda come sempre.
Il cuore gli galoppa in petto, più veloce dei giri del motore, e nella testa è anche peggio. Non riesce a smettere di pensare.
Anzi, i pensieri gli corrono dietro come una muta di bestie selvagge e, per quanto possa andare forte, per quanto strette possano essere le curve, ha il sentore che possano arrivare a mordergli le chiappe da un momento all'altro.
Il primo istinto è quello di urlare fino a farsi dolere la gola. Tanto, chi mai l'avrebbe sentito?
Eppure non un suono gli esce dalla bocca nascosta e appena socchiusa. Sente un groppo in gola, un grumo di angoscia che non c'era da anni e non si scioglie.
Era bastato un attimo, pochi minuti appena, ed eccolo tornato. Che bell'amico fedele.
E la mente viaggia ancora, torna per l'ennesima volta a poche ora prima, quando andava tutto bene.
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Quella sembra una notte tutto sommato tranquilla, il tempo indeciso e primaverile.
Le pagine del libro che sta leggendo sembrano un ammasso confuso di inchiostro.
Brendan batte le palpebre, strofinandosi gli occhi stanchi e poi il viso, guardando l'orologio digitale appeso alla parete, unica decorazione in una casa quasi spoglia.
Quasi le due del mattino...ora di andare a dormire.
Il suo piccolo appartamento è immerso in un silenzio sereno, ma ogni volta che le finestre tremano, al passaggio di un mezzo più pesante o dal motore chiassoso, il telepate sobbalza e si guarda intorno allarmato.
"Che palle."
Ha finalmente ripreso a riposare in modo più o meno regolare, senza incubi terrificanti, e le giornate stanno tornando alla regolarità: è perfino riuscito a tornare a lavoro.
Per come stanno andando le cose può anche considerarsi felice.
La suoneria del cellulare, la solita anatra starnazzante che tanto scandalizza chi gli è intorno, lo coglie di sorpresa mentre sta per alzarsi dal vecchio divano.
Brendan osserva lo schermo, che ogni tanto sfarfalla, indeciso se funzionare o meno. Il numero non gli è conosciuto, e il sorrisetto che aveva cominciato a nascere sul suo viso si dissolve.
Il telepate si affretta a rispondere, risiedendosi, improvvisamente teso.
"Chi è?"
"Non si dice nemmeno pronto? E dire che veniamo dalla stessa famiglia!".
La voce all'altro capo del telefono, specialmente la risata che viene dopo, gli fa perdere quel poco di colore che ancora rimane sulle guance e gli fa crollare un peso in gola e sulle spalle.
"Sei maleducato, fratellino."
"Constantine."
Brendan si alza dal divano con uno scatto talmente violento che le molle cigolano, e comincia a misurare il piccolo ambiente a passi larghi, parlando a brevi soffi da gatto rabbioso.
"Che cazzo vuoi da me?"
La presa sul telefono si fa così forte che perfino le nocche sbiancano.
"Quanta veemenza. Abbiamo cominciato a parlare a domande?"
Constantine ride di nuovo, e per un attimo sembra tornato il ragazzino di una volta, quello che gli ha insegnato a giocare a basket e a strimpellare la chitarra.
"Volevo solo sentirti. Non sei venuto per la caccia alle uova e non ti sei nemmeno scusato. Nonna Jenna si è arrabbiata da morire con te."
"Tu che mi vuoi sentire? Questa è nuova!"
Brendan deve mordersi la lingua e contare fino a dieci per non urlare, ma non riesce a contenere il sarcasmo. Le parole gli escono di bocca a fatica, e solo a costo di lunghi silenzi.
"Cosa ne dice la tua cara mogliettina? L'ultima volta che vi ho visti...come ha detto? Che le faceva schifo avere un mutante...no, un mostro alla stessa tavola e nella stessa famiglia. E mi pare tu fossi d'accordo, che bravo marito amorevole. Che vuoi?"
Cade un silenzio profondo, ma il telepate si rende conto di non essere capace di staccare il cellulare dall'orecchio, anche se avrebbe tanta voglia di farlo.
"...scommetto che mamma ti ha dato il mio numero." Non sembra nemmeno una domanda, ma suo fratello ride di nuovo.
"Vai subito al punto, eh? Ti ricordavo più chiacchierone. Mamma non c'entra niente col numero, anche se farà i salti di gioia se scopre che ci siamo parlati. L'ho rubato dal cellulare di Hector.".
Ammette, candido e apparentemente ancora allegro, la voce brillante, impermeabile alla rabbia che ormai sembra essersi impossessata del fratello minore.
"Ti sto chiamando dall'ufficio. Louise oggi è tornata a casa prima e io avevo...del... lavoro arretrato."
Di nuovo cala un silenzio pieno di disagio e cose non dette. Brendan continua a girare per la casa come una tigre in una gabbia troppo piccola, sforzandosi di non dare calci a niente.
"Allora? Quando cominciano gli insulti, ora che hai la fortuna di potermi raggiungere?"
La voce di Constantine si fa improvvisamente seria.
"Brendan..." Un sospiro, e l'uomo continua a fatica. Il suo buonumore apparente defluisce via, come acqua da uno scarico. "Non ho...non voglio...".
Un sospiro, e finalmente mette le parole insieme, con falsa sicurezza.
"Ho saputo di quello che sta succedendo a Philadelphia, e volevo assicurarmi che stessi bene, visto che non dai mai notizie di te. Tutto qui."
Brendan si passa una mano sul petto, lì dove è stato colpito dalla melma dello scorpione, le ustioni guarite che, sotto la maglia, hanno lasciato la pelle ancora morbida e nuova, e alcuni segni irregolari che probabilmente non se ne andranno nemmeno col tempo.
"Sto una meraviglia. Strano che cominci a preoccuparti proprio ora. Di solito fai finta di non conoscermi, quando va bene, altrimenti passiamo direttamente alle offese, eh?"
"...dobbiamo parlarne proprio ora, a telefono?" Constantine sembra smarrito, e sembra aver perso tutta la sua sicurezza, di botto.
"Certo che no. Se fosse per me non ne parleremmo proprio."
Un altro silenzio sbigottito accoglie le parole feroci del telepate, e quella dell'avvocato Scott sembra quasi una supplica.
"...e dai, fratellino...non voglio litigare. Mi faceva piacere..."
"TI FACEVA PIACERE?"
L'urlo di Brendan fa calare il silenzio totale dall'altra parte del telefono.
"Ora stammi a sentire, brutto pezzo di stronzo..." Ringhia, senza più riuscire a controllare la rabbia che sale a fiotti, come lava bollente.
"Non ho intenzione di parlare con te. Da quando mi chiami alle due di notte per chiacchierare e chiedermi come sto? Non voglio sentire niente di qualunque cazzata ti esca dalla bocca, e se provi a chiamarmi di nuovo vengo di persona a prenderti a sberle, hai capito?"
"Brendan...per favore..." La voce di Constantine è stranamente bassa, un sospiro, ma il telepate non si ferma, furioso.
"Niente per favore. Che cazzo pensavi, chiamare come se nulla fosse e aspettarti il tappetino di benvenuto? Vaffanculo. Stai lontano dalla mia vita."
Senza aspettare nient'altro, senza nemmeno ascoltare quello che suo fratello ha da dire, Brendan interrompe la telefonata, spegnendo subito dopo il cellulare, il respiro che gli esce rapido dai denti digrignati.
Lo stesso telefono viene lanciato sul divano, mentre il telepate afferra la giacca, le chiavi di casa, il casco e le chiavi della moto e apre la rumorosissima, scassata porta di casa, per poi chiuderla senza grazia, con un botto.
venerdì 8 aprile 2016
Black hole
Brendan entra piano dalla porta di casa, e non ci crede nemmeno lui. Odori, suoni e colori familiari lo assalgono come un tornado, e lui per un attimo si ferma.
Gli hanno comprato abiti nuovi, ma lui è talmente magro da ballarci dentro, gli occhi sgranati che sembrano enormi, come quelli dei gufi spaventati dalle prime luci del mattino.
"Abbiamo pensato di spostare il divano letto in soggiorno. E' meglio che non ti affatichi a salire le scale per ora, che dici?".
La voce di Mary, che sembra invecchiata di secoli durante quell'ultimo, infernale, mese, sembra allegra, ma i suoi occhi seguono il secondogenito con una preoccupazione che l'avrebbe tormentata per sempre.
Brendan si sta guardando ancora intorno, la testa, inclinata verso l'alto, su cui cominciano a ricrescere i capelli prima rasati, senza che riescano ancora a coprire le cicatrici del colpo.
Zoppica un po', un'andatura a tratti incerta che sarebbe andata lentamente a scomparire nei due anni seguenti.
"E'...bello."
Alexander e Mary si scambiano uno sguardo sollevato quando lo sentono parlare e muovere la bocca allo stesso tempo.
Gli ci sono volute due settimane per tornare dal posto lontano in cui le botte lo avevano trasferito e altre due per tornare in piedi, ma l'ultimo periodo in ospedale è stato un delirio crescente di scoperte, panico, recriminazioni, parole e cose lanciate senza mira.
Ora, però, il loro secondogenito sembra tranquillo, quasi in modo irreale, sotto gli occhi ansiosi di due genitori che non sanno dove e se ripararsi in caso arrivi l'esplosione.
"BRENDAN!"
Lo strillo di Hector, che arriva a passo di carica dalla cucina, fa sobbalzare un po' tutti, spezzando l'atmosfera sottomarina, e il rosso undicenne si precipita ad abbracciare il fratello maggiore, che lo guarda sorpreso prima di ricambiare, esitante.
"Papà è venuto a prendermi prima da scuola, volevo esserci quando tornavi! Come stai? Ti hanno fatto un sacco di domande, vero?"
Il fratello gli risponde con un sorrisetto altrettanto stentato, ma si fa portare abbastanza docilmente, sottobraccio, verso quella che sarà la sua stanza temporanea.
"Dai, vieni! Devi vedere che figata, ti ho portato tutti i tuoi film, così puoi vederli se ti annoi in questi giorni!"
Il minore della famiglia Scott si comporta come se non fosse successo niente. Da quando ha avuto il permesso di andare a trovare il fratello non ha mai mancato un appuntamento.
Non batte nemmeno le palpebre quando l'espressione di Brendan si fa accigliata, rispondendogli senza girarsi nemmeno e senza nemmeno accorgersi del totale silenzio che li circonda.
Ha accolto la mutazione con indifferenza velata da sana invidia.
"Cosa? Se li ho messi in disordine? No, sono ancora in ordine alfabetico. Certo che sei proprio un rompipalle..."
Mary ed Alexander si permettono un leggero sospiro di sollievo, e si appoggiano l'uno alla spalla dell'altra, esausti. Il marito guarda al piano di sopra, e scuote la testa.
"Almeno lui..."
La sera arriva veloce.
Quando Mary entra nell'arrangiato soggiorno, per dare la buonanotte, trova Hector ancora dal fratello, addormentato in modo strano, la testa appoggiata al bracciolo del divano letto. La televisione è accesa, vi scorre un film reso muto. Zombie che camminano per una strada, gente che scappa.
Brendan è ancora sveglio. E' rimasto in silenzio per la maggior parte della giornata, limitandosi a scambiare solo qualche parola di tanto in tanto e ha mangiato il minimo necessario alla sopravvivenza, qualche boccone e poi basta.
Ora guarda il film con l'aria distratta di chi non osserva davvero, steso nell'unica posizione che non gli fa dolere le costole.
Mary si sente stringere il cuore, e si avvicina per passargli gentilmente una mano sulla testa, in una carezza leggera.
"Dovresti dormire, sai. Non ti fa bene restare.."
"Constantine non c'è? Non viene?" Domanda il sedicenne, di punto in bianco, alzando lo sguardo, appena velato. "Nemmeno ora?".
La madre gela, alzando per un attimo lo guardo verso l'alto.
"Tesoro...lo sai che è sempre occupato con il college, ed è periodo di esami. Ha poco tempo, scommetto che..."
"Hector mi ha detto che è al piano di sopra." Brendan non ha aperto bocca, ma la sua voce comunque fa irruzione nella mente di Mary, e il suo tono mentale è scontento.
La donna ritira la mano, che ancora teneva sulla testa del figlio, come se si fosse scottata.
"Brendan...ne abbiamo parlato...Puoi dirlo ad alta voce? Non va bene... Lo sai che a me non fa piacere..." La madre si interrompe di botto quando lo vede incupirsi di botto, mortificato, e sospira.
"Sì, tesoro. Solo che...non ha molta voglia di parlare, ora. Magari...". L'espressione di Brendan peggiora, e per un attimo assomiglia al bambino che è stato un tempo, sperduto in un mondo di cui ancora non conosceva le regole.
"Pensa che sono un mostro, vero?".
"Più o meno. Ma non è colpa tua." La voce fredda di Constantine fa girare tutti e due di scatto, mentre Hector continua a dormire.
"Non è colpa tua se sei nato sbagliato."
"Constantine!". Mary è senza fiato. Il figlio maggiore si è rifiutato di andare a trovare Brendan da quando hanno comunicato la mutazione a tutta la famiglia.
Sembra stanco, amareggiato: guarda il telepate in modo tale da farlo quasi rimpicciolire nel letto, e fargli distogliere lo sguardo.
"Credevo che tornassi più tardi. Altrimenti non mi sarei fatto trovare." Dice, storcendo la bocca.
"L'unica cosa che mi dispiace è che le voci stiano girando, Brendan, e al circolo non sai quante domande mi hanno fatto. Dovevi proprio farti pestare, eh?" Il giovane scuote la testa.
"Di tutti, proprio tu...è davvero un peccato. Un peccato vergognoso...".
L'espressione è talmente schifata che Brendan si nasconde sotto le coperte.
"Non ho fatto niente di male!"
Il fratello maggiore scuote la testa, e quasi sorride.
"Non è quello che fai....ma quello che sei. Mi stupisco che non abbiano ancora rinchiuso te e quelli come te in qualche edificio di massima sicurezza, lì dove meritate di stare. Saremmo tutti più felici..."
"Proprio tu fra tutti, fratellino...tu...è proprio vero che i mostri si nascondono in famiglia. Eravamo così normali...e poi ci sei tu. Un'anomalia genetica."
Ripeté Constantine, il volto atteggiato in un ringhio. Il dito che indica il fratello è quasi accusatore.
"E' una fortuna che io viva lontano da qui. Sarebbe più giusto se tu sparissi dalla faccia di questa terra, ma so di chiedere troppo. Davvero, non ti meriti di essere un orrore come loro."
"CONSTANTINE, VAI VIA! ORA!" L'urlo di Mary fa sobbalzare tutti e fa addirittura svegliare Hector, che si guarda intorno con aria stordita, per poi sgranare gli occhi quando vede uno
dei fratelli appoggiato allo stipite della porta e l'altro che guarda in quella direzione, pietrificato.
"Volevo solo dirti che vado al college stasera, Mà. Non ti affrettare, tanto anche il mostriciattolo è tornato a casa, e non c'è di che preoccuparsi."
Il ragazzo risponde, gelido, prima di fare un passo indietro.
"Ti volevo bene, Brendan, te ne volevo proprio tanto. Mi dispiace che le cose siano andate così.".
Mary corre dietro al fglio maggiore quando questi va via verso la cucina, e dopo poco la porta sbatte, e si sentono delle urla nemmeno tanto soffocate, ma non intellegibili.
Hector guarda il fratello, e gli mette una mano sulla spalla. E' come toccare un pezzo di arenaria. Sono minuti che non si muove, fermo lì a guardare il punto dove Constantine era prima.
"Vedrai che gli passa...lo sai che è un coglione."
Ma Brendan non risponde a quelle parole di consolazione, non reagisce nemmeno a quelle. Dopo un poco, con lo stesso atteggiamento assente, si gira e gli dà le spalle, e ad Hector non rimane altro da fare che alzare i tacchi e andarsene anche lui, alla chetichella.
Quando Brendan rimane da solo cerca di fare di tutto per non singhiozzare, per seppellire quella voragine che si è improvvisamente aperta nella sua testa, quel buco nero fatto di angoscia che al momento risucchia tutto quello che c'è intorno, lo distorce.
Il mondo gli passa per la testa: la cautela dei suoi genitori, la madre che ritrae la mano, lo spavento delle infermiere quando parlava senza volerlo nella loro testa, e ora lo sguardo pieno di disprezzo di suo fratello maggiore.
Il buco nero continua a succhiare via ogni cosa, senza pietà, fino a lasciare un vuoto cosmico.
Forse Constantine non ha del tutto torto.
Quando arriva il mattino Brendan non è più nel suo letto, e la vecchia automobile del padre è sparita.
Gli hanno comprato abiti nuovi, ma lui è talmente magro da ballarci dentro, gli occhi sgranati che sembrano enormi, come quelli dei gufi spaventati dalle prime luci del mattino.
"Abbiamo pensato di spostare il divano letto in soggiorno. E' meglio che non ti affatichi a salire le scale per ora, che dici?".
La voce di Mary, che sembra invecchiata di secoli durante quell'ultimo, infernale, mese, sembra allegra, ma i suoi occhi seguono il secondogenito con una preoccupazione che l'avrebbe tormentata per sempre.
Brendan si sta guardando ancora intorno, la testa, inclinata verso l'alto, su cui cominciano a ricrescere i capelli prima rasati, senza che riescano ancora a coprire le cicatrici del colpo.
Zoppica un po', un'andatura a tratti incerta che sarebbe andata lentamente a scomparire nei due anni seguenti.
"E'...bello."
Alexander e Mary si scambiano uno sguardo sollevato quando lo sentono parlare e muovere la bocca allo stesso tempo.
Gli ci sono volute due settimane per tornare dal posto lontano in cui le botte lo avevano trasferito e altre due per tornare in piedi, ma l'ultimo periodo in ospedale è stato un delirio crescente di scoperte, panico, recriminazioni, parole e cose lanciate senza mira.
Ora, però, il loro secondogenito sembra tranquillo, quasi in modo irreale, sotto gli occhi ansiosi di due genitori che non sanno dove e se ripararsi in caso arrivi l'esplosione.
"BRENDAN!"
Lo strillo di Hector, che arriva a passo di carica dalla cucina, fa sobbalzare un po' tutti, spezzando l'atmosfera sottomarina, e il rosso undicenne si precipita ad abbracciare il fratello maggiore, che lo guarda sorpreso prima di ricambiare, esitante.
"Papà è venuto a prendermi prima da scuola, volevo esserci quando tornavi! Come stai? Ti hanno fatto un sacco di domande, vero?"
Il fratello gli risponde con un sorrisetto altrettanto stentato, ma si fa portare abbastanza docilmente, sottobraccio, verso quella che sarà la sua stanza temporanea.
"Dai, vieni! Devi vedere che figata, ti ho portato tutti i tuoi film, così puoi vederli se ti annoi in questi giorni!"
Il minore della famiglia Scott si comporta come se non fosse successo niente. Da quando ha avuto il permesso di andare a trovare il fratello non ha mai mancato un appuntamento.
Non batte nemmeno le palpebre quando l'espressione di Brendan si fa accigliata, rispondendogli senza girarsi nemmeno e senza nemmeno accorgersi del totale silenzio che li circonda.
Ha accolto la mutazione con indifferenza velata da sana invidia.
"Cosa? Se li ho messi in disordine? No, sono ancora in ordine alfabetico. Certo che sei proprio un rompipalle..."
Mary ed Alexander si permettono un leggero sospiro di sollievo, e si appoggiano l'uno alla spalla dell'altra, esausti. Il marito guarda al piano di sopra, e scuote la testa.
"Almeno lui..."
La sera arriva veloce.
Quando Mary entra nell'arrangiato soggiorno, per dare la buonanotte, trova Hector ancora dal fratello, addormentato in modo strano, la testa appoggiata al bracciolo del divano letto. La televisione è accesa, vi scorre un film reso muto. Zombie che camminano per una strada, gente che scappa.
Brendan è ancora sveglio. E' rimasto in silenzio per la maggior parte della giornata, limitandosi a scambiare solo qualche parola di tanto in tanto e ha mangiato il minimo necessario alla sopravvivenza, qualche boccone e poi basta.
Ora guarda il film con l'aria distratta di chi non osserva davvero, steso nell'unica posizione che non gli fa dolere le costole.
Mary si sente stringere il cuore, e si avvicina per passargli gentilmente una mano sulla testa, in una carezza leggera.
"Dovresti dormire, sai. Non ti fa bene restare.."
"Constantine non c'è? Non viene?" Domanda il sedicenne, di punto in bianco, alzando lo sguardo, appena velato. "Nemmeno ora?".
La madre gela, alzando per un attimo lo guardo verso l'alto.
"Tesoro...lo sai che è sempre occupato con il college, ed è periodo di esami. Ha poco tempo, scommetto che..."
"Hector mi ha detto che è al piano di sopra." Brendan non ha aperto bocca, ma la sua voce comunque fa irruzione nella mente di Mary, e il suo tono mentale è scontento.
La donna ritira la mano, che ancora teneva sulla testa del figlio, come se si fosse scottata.
"Brendan...ne abbiamo parlato...Puoi dirlo ad alta voce? Non va bene... Lo sai che a me non fa piacere..." La madre si interrompe di botto quando lo vede incupirsi di botto, mortificato, e sospira.
"Sì, tesoro. Solo che...non ha molta voglia di parlare, ora. Magari...". L'espressione di Brendan peggiora, e per un attimo assomiglia al bambino che è stato un tempo, sperduto in un mondo di cui ancora non conosceva le regole.
"Pensa che sono un mostro, vero?".
"Più o meno. Ma non è colpa tua." La voce fredda di Constantine fa girare tutti e due di scatto, mentre Hector continua a dormire.
"Non è colpa tua se sei nato sbagliato."
"Constantine!". Mary è senza fiato. Il figlio maggiore si è rifiutato di andare a trovare Brendan da quando hanno comunicato la mutazione a tutta la famiglia.
Sembra stanco, amareggiato: guarda il telepate in modo tale da farlo quasi rimpicciolire nel letto, e fargli distogliere lo sguardo.
"Credevo che tornassi più tardi. Altrimenti non mi sarei fatto trovare." Dice, storcendo la bocca.
"L'unica cosa che mi dispiace è che le voci stiano girando, Brendan, e al circolo non sai quante domande mi hanno fatto. Dovevi proprio farti pestare, eh?" Il giovane scuote la testa.
"Di tutti, proprio tu...è davvero un peccato. Un peccato vergognoso...".
L'espressione è talmente schifata che Brendan si nasconde sotto le coperte.
"Non ho fatto niente di male!"
Il fratello maggiore scuote la testa, e quasi sorride.
"Non è quello che fai....ma quello che sei. Mi stupisco che non abbiano ancora rinchiuso te e quelli come te in qualche edificio di massima sicurezza, lì dove meritate di stare. Saremmo tutti più felici..."
"Proprio tu fra tutti, fratellino...tu...è proprio vero che i mostri si nascondono in famiglia. Eravamo così normali...e poi ci sei tu. Un'anomalia genetica."
Ripeté Constantine, il volto atteggiato in un ringhio. Il dito che indica il fratello è quasi accusatore.
"E' una fortuna che io viva lontano da qui. Sarebbe più giusto se tu sparissi dalla faccia di questa terra, ma so di chiedere troppo. Davvero, non ti meriti di essere un orrore come loro."
"CONSTANTINE, VAI VIA! ORA!" L'urlo di Mary fa sobbalzare tutti e fa addirittura svegliare Hector, che si guarda intorno con aria stordita, per poi sgranare gli occhi quando vede uno
dei fratelli appoggiato allo stipite della porta e l'altro che guarda in quella direzione, pietrificato.
"Volevo solo dirti che vado al college stasera, Mà. Non ti affrettare, tanto anche il mostriciattolo è tornato a casa, e non c'è di che preoccuparsi."
Il ragazzo risponde, gelido, prima di fare un passo indietro.
"Ti volevo bene, Brendan, te ne volevo proprio tanto. Mi dispiace che le cose siano andate così.".
Mary corre dietro al fglio maggiore quando questi va via verso la cucina, e dopo poco la porta sbatte, e si sentono delle urla nemmeno tanto soffocate, ma non intellegibili.
Hector guarda il fratello, e gli mette una mano sulla spalla. E' come toccare un pezzo di arenaria. Sono minuti che non si muove, fermo lì a guardare il punto dove Constantine era prima.
"Vedrai che gli passa...lo sai che è un coglione."
Ma Brendan non risponde a quelle parole di consolazione, non reagisce nemmeno a quelle. Dopo un poco, con lo stesso atteggiamento assente, si gira e gli dà le spalle, e ad Hector non rimane altro da fare che alzare i tacchi e andarsene anche lui, alla chetichella.
Quando Brendan rimane da solo cerca di fare di tutto per non singhiozzare, per seppellire quella voragine che si è improvvisamente aperta nella sua testa, quel buco nero fatto di angoscia che al momento risucchia tutto quello che c'è intorno, lo distorce.
Il mondo gli passa per la testa: la cautela dei suoi genitori, la madre che ritrae la mano, lo spavento delle infermiere quando parlava senza volerlo nella loro testa, e ora lo sguardo pieno di disprezzo di suo fratello maggiore.
Il buco nero continua a succhiare via ogni cosa, senza pietà, fino a lasciare un vuoto cosmico.
Forse Constantine non ha del tutto torto.
Quando arriva il mattino Brendan non è più nel suo letto, e la vecchia automobile del padre è sparita.
lunedì 4 aprile 2016
To get wind of it
La stanza del dottor Julien Rodriguez è bianca ed asettica, e per una volta Alexander si ritrova a pensare quanto sia spaventoso per un paziente dover aspettare in un posto così poco confortevole, senza che lo sguardo riesca ad appigliarsi su nulla.
Mary è accanto a lui, seduta rigidamente su una sedia, e gli tiene una mano, gliela stringe spasmodicamente nonostante il viso non tradisca il minimo cenno di emozione. E' stanca però, e ha gli occhi arrossati di chi passa le sue notti a piangere fino ad esaurire le lacrime.
Quando la porta si apre è lei la prima a scattare in piedi. Julien Rodriguez è un uomo sulla quarantina, alto e slanciato e dai chiari tratti ispanici. Porta un paio di occhiali grandi e spessi, un plico di fogli in mano, e la sua espressione è tale che Alexander deve sedersi di nuovo, le gambe molli come gelatina.
"Alex... Mary...perdonatemi il ritardo."
"Perchè ci hai chiamati a quest'ora, Julien? E' successo qualcosa a Brendan?" C'è una traccia udibile di ansia nella voce del professor Scott, tanto che Mary lo guarda, sperduta. "Ci sono...novità?"
Il dottore cerca di sorridere, ma pare troppo guardingo. Si siede anche lui con calma, posando il plico di fogli sul tavolino.
"Stai tranquillo. Sono solo arrivati gli ultimi esami." Un cenno al plico lì avanti a lui. "Quei bastardi lo hanno conciato male, ma si riprenderà. Lo teniamo ancora un po' in coma farmacologico, almeno finché non andrà meglio, ma non sembra che il trauma abbia lasciato danni cerebrali permanenti."
Mary cede. Comincia a singhiozzare in silenzio, coprendosi la mano con la bocca e piegandosi appena, e il marito le strofina la schiena, quasi di riflesso. Sta ancora guardando il suo collega, il suo amico.
"Julien...non hai mai fatto quella faccia per nulla. Che cosa c'è che non va?". Insiste, cercando il contatto oculare con il dottore, che continua a sfuggirgli.
Un breve silenzio e poi Julien sospira, portandosi una mano alla montatura degli occhiali.
"Oh, Dio...non avrei mai creduto di dovervi fare una domanda più imbarazzante." Esita talmente tanto che perfino Mary smette di singhiozzare.
"Il fatto è che...vorrei sapere se...qualcuno della vostra famiglia per caso è...accidenti..." Julien si toglie gli occhiali, per pulirli, e sospira di nuovo, sistemandoli e prendendo un'espressione seria.
"Nelle vostre famiglie c'è qualche mutante di cui siete a conoscenza?".
"...Cosa? Mutanti?" Domanda Mary, alzando la testa con così tanta veemenza che le vertebre schioccano. "No, no...non che io sappia...che significa...". L'occhiata tremante che rivolge ad Alexander la fa impallidire.
I suoi occhi sono sgranati, le dita affondate nei braccioli della poltrona.
"Non può essere."
Abbassando lo sguardo, quasi vergognandosi, il dottor Rodriguez estrae alcuni fogli dal plico, allungandoli gentilmente verso i due coniugi. Mary li afferra con la veemenza di un rapace, scorrendoli con occhi ancora umidi.
"C'è un'evidenza abbastanza marcata della presenza del gene X. Abbiamo avuto il sospetto quando la polizia ci ha riferito le testimonianze di alcuni dei ragazzi che erano con lui e sono andati a cercare aiuto, ma..."
"Non è possibile. In questi mesi Brendan ha fatto analisi su analisi, non c'era niente, è impossibile che...Al". La moglie comincia a scuotergli il braccio, disperata, la voce rauca. "Al, diglielo tu..."
"Nessuno stava cercando. Non avrei mai immaginato, non c'è nessuno..." La naturale pacatezza di Alexander cede di fronte a quella novità, e lui deve fare uno sforzo cosciente affinchè le sue labbra non comincino a tremare.
"...cos'è?".
Julien scuote la testa, gli occhi pieni di comprensione.
"Non lo sapremo per certo finchè non si sveglierà. Avete parlato di mal di testa persistenti e malori, vero?" Il dottore stringe le labbra quandi i due annuiscono, sperduti.
"I testimoni hanno riferito che il ragazzo che ha assalito Brendan per primo menzionava cose...strane. Diceva che gli stava parlando senza aprire bocca."
"Un telepate." Mary anticipa tutti, pietrificata sulla sua sedia, affondando poi il viso tra le mani. Stavolta Alexander non se ne accorge nemmeno. Fissa ad occhi sgranati Julien, e lui per un attimo quasi teme un infarto.
"...Posso..." Comincia, senza saper bene che dire, afferrando dei plichi pubblicitari sulla sua scrivania.
"Non dovreste preoccuparvi...in fondo è un potere perfettamente gestibile. Dopo il primo periodo di aggiustamento vedrete che riuscirà a conviverci. In fondo, un mutante non è diverso dalla normale popolazione..."
Mordendosi la lingua, Julien continua, esitante.
"Ci sono alcuni gruppi di ascolto per casi del genere in città, se vi va. Scuole per...quelli come lui... un po' in tutti gli stati... Per Brendan potrebbe essere uno shock. Dovreste prendere in considerazione l'idea che..."
"No. Non abbiamo bisogno di alcun aiuto." La risposta del professor Scott è così veemente che Julien sobbalza. Alexander è rigido, e lo sta guardando male.
"Brendan starà benissimo".
"Ma..."
Il gesto dell'uomo taglia tutte le proteste del dottore, e il suo sguardo lo gela sul posto. C'è tanto disprezzo, tanta angoscia, tanto senso di colpa in quello sguardo, che perfino Julien si sente soffocare.
"Se la caverà alla grande. Non ha bisogno di tutte quelle sciocchezze. Tu pensa a rimetterlo in piedi."
Alexander fa alzare la moglie, anche se lui stesso non sembra in grado di reggersi bene sulle gambe.
"Ti ringrazio degli aggiornamenti, Julien. Ora è meglio se andiamo, è tardi. Coraggio, Mary...su..."
Julien non si alza nemmeno dalla sua sedia, in mano ancora i piccoli opuscoli colorati, e li guarda uscire dalla sua stanza, abbracciati come naufraghi in mezzo ad una terribile tempesta, una di quelle troppo grandi per loro.
La porta si chiude, e il dottore sospira, scuotendo la testa.
"Non va bene."
Una fiammella nasce dal palmo della sua mano, dal nulla, bruciando tutti gli opuscoli.
Julien non pensa nemmeno a togliere la cenere ancora calda dalla scrivania. Se ne va così, a testa bassa, portando con sè il plico di fogli.
La sua espressione è ancora più cupa di prima.
Mary è accanto a lui, seduta rigidamente su una sedia, e gli tiene una mano, gliela stringe spasmodicamente nonostante il viso non tradisca il minimo cenno di emozione. E' stanca però, e ha gli occhi arrossati di chi passa le sue notti a piangere fino ad esaurire le lacrime.
Quando la porta si apre è lei la prima a scattare in piedi. Julien Rodriguez è un uomo sulla quarantina, alto e slanciato e dai chiari tratti ispanici. Porta un paio di occhiali grandi e spessi, un plico di fogli in mano, e la sua espressione è tale che Alexander deve sedersi di nuovo, le gambe molli come gelatina.
"Alex... Mary...perdonatemi il ritardo."
"Perchè ci hai chiamati a quest'ora, Julien? E' successo qualcosa a Brendan?" C'è una traccia udibile di ansia nella voce del professor Scott, tanto che Mary lo guarda, sperduta. "Ci sono...novità?"
Il dottore cerca di sorridere, ma pare troppo guardingo. Si siede anche lui con calma, posando il plico di fogli sul tavolino.
"Stai tranquillo. Sono solo arrivati gli ultimi esami." Un cenno al plico lì avanti a lui. "Quei bastardi lo hanno conciato male, ma si riprenderà. Lo teniamo ancora un po' in coma farmacologico, almeno finché non andrà meglio, ma non sembra che il trauma abbia lasciato danni cerebrali permanenti."
Mary cede. Comincia a singhiozzare in silenzio, coprendosi la mano con la bocca e piegandosi appena, e il marito le strofina la schiena, quasi di riflesso. Sta ancora guardando il suo collega, il suo amico.
"Julien...non hai mai fatto quella faccia per nulla. Che cosa c'è che non va?". Insiste, cercando il contatto oculare con il dottore, che continua a sfuggirgli.
Un breve silenzio e poi Julien sospira, portandosi una mano alla montatura degli occhiali.
"Oh, Dio...non avrei mai creduto di dovervi fare una domanda più imbarazzante." Esita talmente tanto che perfino Mary smette di singhiozzare.
"Il fatto è che...vorrei sapere se...qualcuno della vostra famiglia per caso è...accidenti..." Julien si toglie gli occhiali, per pulirli, e sospira di nuovo, sistemandoli e prendendo un'espressione seria.
"Nelle vostre famiglie c'è qualche mutante di cui siete a conoscenza?".
"...Cosa? Mutanti?" Domanda Mary, alzando la testa con così tanta veemenza che le vertebre schioccano. "No, no...non che io sappia...che significa...". L'occhiata tremante che rivolge ad Alexander la fa impallidire.
I suoi occhi sono sgranati, le dita affondate nei braccioli della poltrona.
"Non può essere."
Abbassando lo sguardo, quasi vergognandosi, il dottor Rodriguez estrae alcuni fogli dal plico, allungandoli gentilmente verso i due coniugi. Mary li afferra con la veemenza di un rapace, scorrendoli con occhi ancora umidi.
"C'è un'evidenza abbastanza marcata della presenza del gene X. Abbiamo avuto il sospetto quando la polizia ci ha riferito le testimonianze di alcuni dei ragazzi che erano con lui e sono andati a cercare aiuto, ma..."
"Non è possibile. In questi mesi Brendan ha fatto analisi su analisi, non c'era niente, è impossibile che...Al". La moglie comincia a scuotergli il braccio, disperata, la voce rauca. "Al, diglielo tu..."
"Nessuno stava cercando. Non avrei mai immaginato, non c'è nessuno..." La naturale pacatezza di Alexander cede di fronte a quella novità, e lui deve fare uno sforzo cosciente affinchè le sue labbra non comincino a tremare.
"...cos'è?".
Julien scuote la testa, gli occhi pieni di comprensione.
"Non lo sapremo per certo finchè non si sveglierà. Avete parlato di mal di testa persistenti e malori, vero?" Il dottore stringe le labbra quandi i due annuiscono, sperduti.
"I testimoni hanno riferito che il ragazzo che ha assalito Brendan per primo menzionava cose...strane. Diceva che gli stava parlando senza aprire bocca."
"Un telepate." Mary anticipa tutti, pietrificata sulla sua sedia, affondando poi il viso tra le mani. Stavolta Alexander non se ne accorge nemmeno. Fissa ad occhi sgranati Julien, e lui per un attimo quasi teme un infarto.
"...Posso..." Comincia, senza saper bene che dire, afferrando dei plichi pubblicitari sulla sua scrivania.
"Non dovreste preoccuparvi...in fondo è un potere perfettamente gestibile. Dopo il primo periodo di aggiustamento vedrete che riuscirà a conviverci. In fondo, un mutante non è diverso dalla normale popolazione..."
Mordendosi la lingua, Julien continua, esitante.
"Ci sono alcuni gruppi di ascolto per casi del genere in città, se vi va. Scuole per...quelli come lui... un po' in tutti gli stati... Per Brendan potrebbe essere uno shock. Dovreste prendere in considerazione l'idea che..."
"No. Non abbiamo bisogno di alcun aiuto." La risposta del professor Scott è così veemente che Julien sobbalza. Alexander è rigido, e lo sta guardando male.
"Brendan starà benissimo".
"Ma..."
Il gesto dell'uomo taglia tutte le proteste del dottore, e il suo sguardo lo gela sul posto. C'è tanto disprezzo, tanta angoscia, tanto senso di colpa in quello sguardo, che perfino Julien si sente soffocare.
"Se la caverà alla grande. Non ha bisogno di tutte quelle sciocchezze. Tu pensa a rimetterlo in piedi."
Alexander fa alzare la moglie, anche se lui stesso non sembra in grado di reggersi bene sulle gambe.
"Ti ringrazio degli aggiornamenti, Julien. Ora è meglio se andiamo, è tardi. Coraggio, Mary...su..."
Julien non si alza nemmeno dalla sua sedia, in mano ancora i piccoli opuscoli colorati, e li guarda uscire dalla sua stanza, abbracciati come naufraghi in mezzo ad una terribile tempesta, una di quelle troppo grandi per loro.
La porta si chiude, e il dottore sospira, scuotendo la testa.
"Non va bene."
Una fiammella nasce dal palmo della sua mano, dal nulla, bruciando tutti gli opuscoli.
Julien non pensa nemmeno a togliere la cenere ancora calda dalla scrivania. Se ne va così, a testa bassa, portando con sè il plico di fogli.
La sua espressione è ancora più cupa di prima.
giovedì 31 marzo 2016
Luck of the draw
Albany, ore 6.30 del mattino, 12 ottobre 2015.
"Buongiorno telespettatori, e benvenuti alle previsioni del tempo. Sembra che le temperature non abbiano intenzione di scendere. Un'estate prolungata sta..."
Alexander spense la televisione con un gesto distratto, impegnato a imbandire la tavola per la colazione.
Quel lunedì sembrava cominciare nel migliore dei modi. Nonostante le bellissime giornate, quasi estive, a quell'ora del mattino l'aria era frizzante ed autunnale. La luce era ancora soffusa, ma già cominciava ad illuminare il soggiorno di casa Scott.
Tutto era beato silenzio, finché...
"Ragazzi! A tavola! E piantatela con quella maledetta radio!" Mary, già pronta per un altro giorno di lavoro, impeccabile come sempre, chiamò i figli con voce seccata, cercando di farsi sentire al di sopra del frastuono improvviso che l'aveva quasi fatta saltare dalla paura.
"Mà, dai. Sono le sei e mezzo del mattino, ti pare il caso di strillare così? Come fai a sopravvivere a quest'ora ed essere così vivace..."
Constantine aveva ormai cominciato il college, lanciato verso una brillante carriera di avvocato. A ventidue anni era il più grande, l'unico della famiglia a non aver ereditato la zazzera riccia del padre.
Già pronto per sopravvivere al campus un altro paio di settimane, strusciando i piedi, andò a buttare il suo borsone di abiti puliti all'ingresso, senza troppe cerimonie. Sembrava seccato, e controllava il suo cellulare di tanto in tanto.
"Ti pareva...niente lezioni oggi. Hanno organizzato uno stupido convegno per spiegare quella robaccia su mutanti e cose del genere. Tsk, maledetti superumani. Se solo non avessero dato loro queste libertà, vedi come non saremmo a questo punto, oggi! E per colpa di quei mostri io devo perdere ore fondamentali per...".
Un'occhiata di avvertimento di Alexander lo fece andare verso il tavolo senza altri commenti, a testa bassa e occhi fiammeggianti.
Nel frattempo, la radio continuava ancora a rompere i timpani.
"HECTOR! SMETTILA SUBITO!"
La radio si spense, e una testa ricciuta di un biondo quasi rosso fece capolino dalla balaustra del piano di sopra, sbadigliando assonnata, ancora in pigiama.
"Ma...mam..."
"Niente ma mamma! Finisci di vestirti e fila subito di sotto!"
L'urlo di Mary era di quelli tanto perentori da far capitolare anche un uomo notoriamente testardo come Alexander, e l'allora undicenne Hector non fu da meno.
Scomparve in un attimo, riapparendo cinque minuti dopo, perfettamente vestito. Dopodiché, a tavola si scatenò la solita guerra.
Constantine ed Hector, uno di fronte all'altro, erano impegnati in una lotta all'ultimo sangue per il possesso del barattolo di miele per i pancakes.
Mancava solo una persona.
Alexander e Mary si scambiarono uno sguardo seccato.
"Ti pareva. Ah, maledizione, ci farà fare sempre tardi..." Brontolò l'uomo, alzando nel frattempo la voce per farsi sentire. "Brendan!"
"Stai a vedere che anche stavolta non ha messo la sveglia". Intervenne Constantine, sarcastico, allungandosi per fregare l'ultimo pancake da sotto il naso del fratello, che protestò vigorosamente.
"Finitela, voi due. Constantine, fai il bravo e dividi il pancake con tuo fratello, dai. Cominciamo bene la mattina, per favore..." Il giovane alzò gli occhi al cielo, ma ad ogni modo obbedì agli ordini quieti e pacati del padre che continuò a parlare. "Mary, vai tu?"
La donna non se lo fece ripeter due volte, già in assetto da guerra. "Brendan!" Urlò, avvicinandosi alle scale che portavano alle stanze da letto, al piano superiore. "Brendan maledizione, esci da quel letto... subito!".
Ancora niente, da sopra non proveniva nemmeno un sospiro. Sempre più indispettita la donna, ancora scattante nonostante l'età che cominciava ad avanzare, i lunghi capelli biondi liberi di frustare le spalle ad ogni passo, cominciò ad avviarsi per le scale.
La porta della camera di Brendan era socchiusa, e dentro era buio.
"Hai di nuovo fatto tardi ieri sera, eh? Su, muoviti. Farai arrivare tutti in ritardo e non riuscirai nemmeno a far colazione!"
Continuando a parlare, la donna accese la luce, stupendosi ogni volta dell'ordine che vigeva nella camera del suo secondogenito. Di tutti e tre era sempre stato l'unico a non aver mai avuto bisogno di rimproveri, non in quel senso. Era lui a riordinare e addirittura pulire così accuratamente che tutto riluceva come nuovo.
"Vedi che oggi c'è scuola. Se la professoressa Martin viene a dirmi che hai saltato di nuovo le sue lezioni, ti faccio vedere..." La voce di Mary si spense quando la donna osservò il letto.
Era vuoto. Coperte e cuscini erano spariti da qualche parte, e di Brendan nessuna traccia.
Invece di tradire preoccupazione, la donna parve indispettirsi ancora di più.
"Brendan! Piantala di nasconderti come un bambino ed esci fuori!" La sua voce si fece più acuta. Un mugugno, un lamento provenienete da dietro il letto la fecero andare in quella direzione a passo di marcia.
La vista di un mucchio informe di coperte la fece infuriare e, con un gesto rabbioso, Mary ne afferrò un lembo, tirando via con tutte le sue forze.
L'allora sedicenne Brendan Scott, mezzo vestito, si era rifugiato testa contro il cuscino, mani premute contro le orecchie e occhi serrati.
"La luce!" La richiesta del figlio, così lamentosa da sembrare una supplica, piantò semi di apprensione nel cuore di Mary. "Spegni la luce!"
Per un attimo, sua madre rimase ad osservarlo, accigliata, senza sapere che fare. Poi, poggiandosi le mani sui fianchi, fece per ribattere, piccata.
"Non di nuovo mal di testa! Che hai combinato? Hai di nuovo rubato dall'armadietto dei liquori di tuo padre o hai fatto le ore piccole a vedere i tuoi stupidi film? La prossima volta ti taglio la corrente!"
Brendan fece per rannicchiarsi, digrignando i denti, e i semi cominciarono a mettere radici. Più dolcemente, allungandosi per accarezzargli la spalla, Mary sembrò consolarlo. "Coraggio, alzati. Vedo di trovarti qualcosa per il dolore..."
Venti minuti più tardi Brendan era seduto al tavolo nella sala da pranzo, distratto e pallido come uno spettro.
Alexander e Mary, ormai alla porta, stavano parlottando a bassa voce. L'autobus era già passato per prendere Hector.
"...no. Non poteva prendere niente..."
"Sei sicuro? Potrebbe aver fatto comparare qualcosa dai suoi amici. Sai che gira con quei tipi più grandi dell'officina..."
"Mary...se il signor Summers avesse scoperto una cosa del genere ce l'avrebbe detto, e fidati che l'avrebbe scoperto. Questo fatto non mi piace..."
Ancora parlottando, i due coniugi si chiusero la porta alle spalle.
Restava solo Constantine.
"Farai tardi." La voce di Brendan era solo un mormorio e lui, nonostante i medicinali, non aveva toccato la colazione, e fissava la tazza dei cereali, nauseato. "Hai lezione...".
"Stronzate, fratellino. Tu stai male e da solo non ci vai a scuola. Se continua così ti porto al pronto soccorso e poi vedi che infarto viene a papà."
Il giovane riuscì anche a sogghignare, senza però riuscire a nascondere l'apprensione. "Bel trucco, quello del mal di testa, ma mi sa che con mamma non attacca. Va meglio?".
La totale mancanza di reazioni del fratello riuscì a preoccupare ancora di più Constantine, che si portò le mani nei capelli corti e scuri. Piombò un silenzio denso come melassa.
"Brendan..." Cominciò, serio. "...stai bevendo?"
Il distratto sedicenne, i capelli ritti in testa come un nido malfatto, si girò con un movimento così repentino da farlo lamentare di nuovo e strizzare gli occhi.
"Ma sei scemo?" Era talmente offeso, nonostante il dolore, che Constantine si sentì immediatamente rassicurato. "Ti ci metti pure tu? Ieri sera sono anche andato a dormire presto... è la terza volta da cinque giorni..."
"Scusa, scusa. E' che...è strano, no? Questo mal di testa..." Il giovane piombò nuovamente in silenzio, osservando il fratello minore, e sospirando, preoccupato.
"Prometti che vai a farti dare una controllatina se continua, va bene? Ti voglio bello e pimpante per farti prendere a calci in culo quando giochiamo a basket."
Brendan annuì stancamente. L'effetto del farmaco stava riducendo il sordo pulsare della sua testa a un ronzio di fondo, molto più sopportabile, e quasi riuscì a sorridere.
Constantine rispose con un sogghigno.
"Lo sai cosa, fratellino? Fanculo il college e fanculo la scuola, oggi è una bella giornata. Prendiamo la vecchia macchina di papà e si va al parco. Andiamo a divertirci un po'!".
"Buongiorno telespettatori, e benvenuti alle previsioni del tempo. Sembra che le temperature non abbiano intenzione di scendere. Un'estate prolungata sta..."
Alexander spense la televisione con un gesto distratto, impegnato a imbandire la tavola per la colazione.
Quel lunedì sembrava cominciare nel migliore dei modi. Nonostante le bellissime giornate, quasi estive, a quell'ora del mattino l'aria era frizzante ed autunnale. La luce era ancora soffusa, ma già cominciava ad illuminare il soggiorno di casa Scott.
Tutto era beato silenzio, finché...
"Ragazzi! A tavola! E piantatela con quella maledetta radio!" Mary, già pronta per un altro giorno di lavoro, impeccabile come sempre, chiamò i figli con voce seccata, cercando di farsi sentire al di sopra del frastuono improvviso che l'aveva quasi fatta saltare dalla paura.
"Mà, dai. Sono le sei e mezzo del mattino, ti pare il caso di strillare così? Come fai a sopravvivere a quest'ora ed essere così vivace..."
Constantine aveva ormai cominciato il college, lanciato verso una brillante carriera di avvocato. A ventidue anni era il più grande, l'unico della famiglia a non aver ereditato la zazzera riccia del padre.
Già pronto per sopravvivere al campus un altro paio di settimane, strusciando i piedi, andò a buttare il suo borsone di abiti puliti all'ingresso, senza troppe cerimonie. Sembrava seccato, e controllava il suo cellulare di tanto in tanto.
"Ti pareva...niente lezioni oggi. Hanno organizzato uno stupido convegno per spiegare quella robaccia su mutanti e cose del genere. Tsk, maledetti superumani. Se solo non avessero dato loro queste libertà, vedi come non saremmo a questo punto, oggi! E per colpa di quei mostri io devo perdere ore fondamentali per...".
Un'occhiata di avvertimento di Alexander lo fece andare verso il tavolo senza altri commenti, a testa bassa e occhi fiammeggianti.
Nel frattempo, la radio continuava ancora a rompere i timpani.
"HECTOR! SMETTILA SUBITO!"
La radio si spense, e una testa ricciuta di un biondo quasi rosso fece capolino dalla balaustra del piano di sopra, sbadigliando assonnata, ancora in pigiama.
"Ma...mam..."
"Niente ma mamma! Finisci di vestirti e fila subito di sotto!"
L'urlo di Mary era di quelli tanto perentori da far capitolare anche un uomo notoriamente testardo come Alexander, e l'allora undicenne Hector non fu da meno.
Scomparve in un attimo, riapparendo cinque minuti dopo, perfettamente vestito. Dopodiché, a tavola si scatenò la solita guerra.
Constantine ed Hector, uno di fronte all'altro, erano impegnati in una lotta all'ultimo sangue per il possesso del barattolo di miele per i pancakes.
Mancava solo una persona.
Alexander e Mary si scambiarono uno sguardo seccato.
"Ti pareva. Ah, maledizione, ci farà fare sempre tardi..." Brontolò l'uomo, alzando nel frattempo la voce per farsi sentire. "Brendan!"
"Stai a vedere che anche stavolta non ha messo la sveglia". Intervenne Constantine, sarcastico, allungandosi per fregare l'ultimo pancake da sotto il naso del fratello, che protestò vigorosamente.
"Finitela, voi due. Constantine, fai il bravo e dividi il pancake con tuo fratello, dai. Cominciamo bene la mattina, per favore..." Il giovane alzò gli occhi al cielo, ma ad ogni modo obbedì agli ordini quieti e pacati del padre che continuò a parlare. "Mary, vai tu?"
La donna non se lo fece ripeter due volte, già in assetto da guerra. "Brendan!" Urlò, avvicinandosi alle scale che portavano alle stanze da letto, al piano superiore. "Brendan maledizione, esci da quel letto... subito!".
Ancora niente, da sopra non proveniva nemmeno un sospiro. Sempre più indispettita la donna, ancora scattante nonostante l'età che cominciava ad avanzare, i lunghi capelli biondi liberi di frustare le spalle ad ogni passo, cominciò ad avviarsi per le scale.
La porta della camera di Brendan era socchiusa, e dentro era buio.
"Hai di nuovo fatto tardi ieri sera, eh? Su, muoviti. Farai arrivare tutti in ritardo e non riuscirai nemmeno a far colazione!"
Continuando a parlare, la donna accese la luce, stupendosi ogni volta dell'ordine che vigeva nella camera del suo secondogenito. Di tutti e tre era sempre stato l'unico a non aver mai avuto bisogno di rimproveri, non in quel senso. Era lui a riordinare e addirittura pulire così accuratamente che tutto riluceva come nuovo.
"Vedi che oggi c'è scuola. Se la professoressa Martin viene a dirmi che hai saltato di nuovo le sue lezioni, ti faccio vedere..." La voce di Mary si spense quando la donna osservò il letto.
Era vuoto. Coperte e cuscini erano spariti da qualche parte, e di Brendan nessuna traccia.
Invece di tradire preoccupazione, la donna parve indispettirsi ancora di più.
"Brendan! Piantala di nasconderti come un bambino ed esci fuori!" La sua voce si fece più acuta. Un mugugno, un lamento provenienete da dietro il letto la fecero andare in quella direzione a passo di marcia.
La vista di un mucchio informe di coperte la fece infuriare e, con un gesto rabbioso, Mary ne afferrò un lembo, tirando via con tutte le sue forze.
L'allora sedicenne Brendan Scott, mezzo vestito, si era rifugiato testa contro il cuscino, mani premute contro le orecchie e occhi serrati.
"La luce!" La richiesta del figlio, così lamentosa da sembrare una supplica, piantò semi di apprensione nel cuore di Mary. "Spegni la luce!"
Per un attimo, sua madre rimase ad osservarlo, accigliata, senza sapere che fare. Poi, poggiandosi le mani sui fianchi, fece per ribattere, piccata.
"Non di nuovo mal di testa! Che hai combinato? Hai di nuovo rubato dall'armadietto dei liquori di tuo padre o hai fatto le ore piccole a vedere i tuoi stupidi film? La prossima volta ti taglio la corrente!"
Brendan fece per rannicchiarsi, digrignando i denti, e i semi cominciarono a mettere radici. Più dolcemente, allungandosi per accarezzargli la spalla, Mary sembrò consolarlo. "Coraggio, alzati. Vedo di trovarti qualcosa per il dolore..."
Venti minuti più tardi Brendan era seduto al tavolo nella sala da pranzo, distratto e pallido come uno spettro.
Alexander e Mary, ormai alla porta, stavano parlottando a bassa voce. L'autobus era già passato per prendere Hector.
"...no. Non poteva prendere niente..."
"Sei sicuro? Potrebbe aver fatto comparare qualcosa dai suoi amici. Sai che gira con quei tipi più grandi dell'officina..."
"Mary...se il signor Summers avesse scoperto una cosa del genere ce l'avrebbe detto, e fidati che l'avrebbe scoperto. Questo fatto non mi piace..."
Ancora parlottando, i due coniugi si chiusero la porta alle spalle.
Restava solo Constantine.
"Farai tardi." La voce di Brendan era solo un mormorio e lui, nonostante i medicinali, non aveva toccato la colazione, e fissava la tazza dei cereali, nauseato. "Hai lezione...".
"Stronzate, fratellino. Tu stai male e da solo non ci vai a scuola. Se continua così ti porto al pronto soccorso e poi vedi che infarto viene a papà."
Il giovane riuscì anche a sogghignare, senza però riuscire a nascondere l'apprensione. "Bel trucco, quello del mal di testa, ma mi sa che con mamma non attacca. Va meglio?".
La totale mancanza di reazioni del fratello riuscì a preoccupare ancora di più Constantine, che si portò le mani nei capelli corti e scuri. Piombò un silenzio denso come melassa.
"Brendan..." Cominciò, serio. "...stai bevendo?"
Il distratto sedicenne, i capelli ritti in testa come un nido malfatto, si girò con un movimento così repentino da farlo lamentare di nuovo e strizzare gli occhi.
"Ma sei scemo?" Era talmente offeso, nonostante il dolore, che Constantine si sentì immediatamente rassicurato. "Ti ci metti pure tu? Ieri sera sono anche andato a dormire presto... è la terza volta da cinque giorni..."
"Scusa, scusa. E' che...è strano, no? Questo mal di testa..." Il giovane piombò nuovamente in silenzio, osservando il fratello minore, e sospirando, preoccupato.
"Prometti che vai a farti dare una controllatina se continua, va bene? Ti voglio bello e pimpante per farti prendere a calci in culo quando giochiamo a basket."
Brendan annuì stancamente. L'effetto del farmaco stava riducendo il sordo pulsare della sua testa a un ronzio di fondo, molto più sopportabile, e quasi riuscì a sorridere.
Constantine rispose con un sogghigno.
"Lo sai cosa, fratellino? Fanculo il college e fanculo la scuola, oggi è una bella giornata. Prendiamo la vecchia macchina di papà e si va al parco. Andiamo a divertirci un po'!".
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