Sul tavolo ha poggiato un pacchetto di sigarette, un accendino e un foglietto, e sta guardando tutto senza fare rumore.
Casa è quieta anche se non è nemmeno l'una: è il silenzio che capita nelle giornate davvero, davvero piene.
Oggi lo è stata, in un certo senso, ma la testa continua ad essere in fermento.
Ha di nuovo in mano la chitarra: non è mai stato bravissimo nè sarà mai un musicista, ma è riuscito a ricordare tutti gli accordi delle sue canzoni preferite e la cosa quasi gli riempie gli occhi di lacrime, di nuovo.
Come quando ha ricordato il nome dei suoi gatti.
Cosa ha mangiato a cena.
La strada di casa, senza sbagliare e senza dover ricorrere al navigatore.
Il suo indirizzo.
Il numero della sua compagna, di Max, di Constantine, Hector, di sua madre, di suo padre.
Pezzi più o meno importanti che riprendono il loro posto e il loro ordine, fili dell'ordito che si dipanano con chiarezza che non ricorda di aver mai avuto.
La sua vita.
C'è anche altro, qualcosa che sa di una sera umida, di sangue e metallo, ma lì la memoria si rifiuta di arrivare e non è un problema.
Ci sono pezzi che è bene vadano perduti e posti in cui è meglio non tornare.
Ma gli altri? Gli altri non glieli ruberà più nessuno.
Rabbrividendo, si alza, per andare a chiudere la finestra e posare la chitarra: lo sguardo corre verso la stanza dove Michael, quello grande, sta dormendo spossato.
Lui è una persona a sé, un uomo alto col sorriso da ragazzo, ma Brendan non riesce a resistere all'impulso di avvicinarsi, di rimboccargli le coperte zitto zitto e di riavviargli i capelli scombinati come i suoi, senza riuscirci.
Dovrebbe fargli un regalo di compleanno, anche se è passato da un po'.
Sta ancora pensando a cosa fare mentre richiude la porta, quatto quatto, andando di là a controllare un lettino debolmente illuminato da lucine gialle di Natale, appese fuori portata.
Il suo sguardo incontra quello assonnato di un marmocchietto riccio in pigiamino con i dinosauri, che tende le mani verso di lui e piagnucola un bel distinto "papà" che gli scioglie il cuore e fa stampare un sorriso sulle labbra.
"E tu che ci fai ancora sveglio, piccola peste?"
Michael, quello piccolo, sta crescendo: è alto per i suoi quasi diciotto mesi, con un sorriso contagioso e impudente che nemmeno il capriccio notturno riesce del tutto a cancellare. Si strofina gli occhi chiari, identici ai suoi, e si appoggia alla spalla del padre quando lo prende, saltellando sul posto e tornando poi a sedersi sulla stessa sedia della cucina prima che la magrezza lo tradisca.
Lo sguardo corre all'esterno, al cielo: cerca senza riuscirci il profilo di Knoxos mentre coccola e rassicura suo figlio ancora incerto tra la veglia e il sonno.
Babylon è un nome stupido.
Sbuffa una risata silenziosa, che fa sobbalzare Mike.
"Hey. E' tutto ok." Brendan lo abbraccia e lo fa saltellare sulle ginocchia. "Non ti lascerò solo, marmocchietto."
E la mente corre, limpida come non mai, va a molte cose.
A feste di compleanno con coriandoli, torte, montagne di regali, voci e risate squillanti di bambini e cori stonati di tanti auguri a te.
A una prima bicicletta, a ruote tolte e ginocchia sbucciate.
A recite e partite di Basket e vestiti di Halloween, dolcetto o scherzetto e carote con biscotti lasciati sul piatto per Babbo Natale.
E scivoli e altalene e zainetti e compiti, favole prima di andare a dormire, piccole delusioni e gioie e il tempo che scorre.
A un matrimonio e una barca.
Al futuro. Oltre.
"Are we gonna be heroes?"
E Mike ridacchia quando Brendan gli fa il solletico, tornando ad accoccolarsi e addomentandosi poco dopo, beato e al sicuro tra le braccia del padre che si alza per andare a buttare nel cestino le sigarette.
"Yes. I think we'll be."
Non puoi proteggere gli altri se non ti prendi cura di te stesso. E' la differenza fra l'eroe e la vittima sacrificale. Me lo hai insegnato tu.